La «knowledge economy» aiuta a mantenere alti livelli di occupazione, ma l’Italia è ancora in mezzo al guado
Il tema del lavoro è oggi al centro dei dibattiti in tutta Europa. Solo in Italia l’attenzione è però quasi tutta focalizzata sui licenziamenti e sugli ammortizzatori sociali. Questa ossessione è connessa alla cultura fortemente protezionistica che (ancora) caratterizza i sindacati e larghi segmenti della sinistra, che rischia di essere controproducente per le stesse persone che si vorrebbero tutelare. Ma vi sono altre comprensibili e più profonde ragioni, su cui è bene riflettere.
Perdere il lavoro è sempre un’esperienza traumatica. In un Paese con una quota ancora altissima — rispetto agli altri Stati europei — di famiglie monoreddito, il licenziamento può avere serie conseguenze in termini di sicurezza, soprattutto quando finiscono le indennità di disoccupazione. Non è un caso che l’80% di italiani dichiarino oggi di essere molto preoccupati per la propria situazione economica nei prossimi due anni: 20 punti in più della Germania, il doppio della Danimarca. La pandemia ha esasperato la situazione. Ma quella di perdere il posto è da noi una paura atavica, che ci portiamo dietro sin dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Una paura che spiega perché la Cassa integrazione — e non la Naspi, l’indennità di disoccupazione — sia considerata l’ammortizzatore sociale per eccellenza. E che al tempo stesso spiega la spasmodica avversione al licenziamento, anche quando le aziende non riescono più a restare sul mercato.
Durante la crisi Covid, solo una manciata di Paesi ha introdotto il divieto di licenziare, per brevi periodi di tempo. In Italia il blocco è durato quindici mesi, ed è peraltro ancora in vigore per alcuni settori. Negli altri Paesi i lavoratori disoccupati vengono trasferiti su un binario parallelo di ricollocamento. Il secondo reddito della famiglia e l’indennità temporanea di disoccupazione attutiscono l’insicurezza economica, mentre i servizi per l’impiego accompagnano verso un nuovo posto di lavoro, quasi sempre dopo un periodo di ri-qualificazione professionale. In Italia il licenziamento rischia invece di essere un salto nel buio. Le politiche attive sono deboli e poco efficaci. Molte imprese cercano personale da assumere, a patto che abbia certe competenze. Manca però un sistema informativo nazionale, mentre le politiche formative sono gestite da una molteplicità di attori, con risorse scarse e metodi poco efficaci.
Ovviamente, le politiche attive hanno tanto più successo quanto più numerose sono le richieste delle imprese. La crisi Covid ha depresso in tutta Europa la domanda di lavoro e a pagarne le conseguenze sono state in particolare donne e giovani con contratti a termine. Ma il problema italiano è che già prima della pandemia i livelli di occupazione erano molto bassi. È questo il bandolo della matassa.
In Italia non c’è abbastanza lavoro. La sesta economia del pianeta riesce ad occupare solo il 58% dei propri adulti, di contro al 65% della Francia, ad una media Ue del 68% e al 77% della Germania. Vuol dire milioni di posti di lavoro in meno.
Può consolarci la tenuta della manifattura, ma da sola non può garantire la creazione di lavoro ai livelli di cui un Paese come il nostro avrebbe bisogno. Il deficit riguarda soprattutto il settore dei servizi. In parte è l’esito del «familismo» all’italiana, che ancora relega una grande quantità di donne a produrre entro le mura domestiche quei servizi di cura che altrove in Europa vengono erogati dallo Stato o dal mercato — creando così occupazione. In altra parte, i posti scarseggiano a causa dei tanti colli di bottiglia che ostacolano la concorrenza e il dinamismo del terziario. Più in generale, a parte rare eccezioni, il nostro Paese non è riuscito a innescare i motori di sviluppo tipici delle economie post-industriali. Sulle mappe che mostrano dove sono in Europa i cosiddetti «hub» di crescita (valore aggiunto e occupazione), la penisola italiana offre un quadro desolante. Le regioni del Sud sono una delle più ampie zone grigie (prive di hub) del continente. Mentre la costa spagnola e le Baleari, la Corsica, le isole greche e Cipro sono indicati come «paradisi del turismo», in tutto il Mezzogiorno rientra in questa categoria solo la provincia di Olbia. Il resto sopravvive principalmente grazie al bilancio pubblico. E nel Centro-Nord i distretti «ad alta intensità di conoscenza» sono molto meno numerosi che nei Paesi centro-continentali e nordici. Secondo la tesi di due noti scienziati politici, Torben Iversen e David Soskice, la diffusione e il radicamento della knowledge economy (intesa in senso ampio: non solo tecnologia, ma anche turismo, cultura, intrattenimento, istruzione e ricerca) sono oggi condizioni necessarie per mantenere alti livelli di occupazione e salvaguardare al tempo stesso prosperità e democrazia. L’Italia è ancora in mezzo al guado. E persino nei territori dove si è acceso il motore post-industriale, la crescita del valore aggiunto non ha generato tutta l’occupazione potenziale.
Di questo si dovrebbe parlare oggi; è in questa cornice che dovrebbe inserirsi il dibattito sul lavoro. Parlare solo di ammortizzatori sociali non fa che riprodurre la trappola della paura. Per dare fiducia ai giovani, ci vorrebbe un piano strategico per riempire la penisola di hub, con una fitta rete di punti d’accesso. Accompagnato da una comunicazione politica imperniata sulle garanzie di opportunità, in modo da neutralizzare quel riflesso condizionato che induce a privilegiare sempre e soltanto le garanzie di protezione.