22 Novembre 2024
gasdotto

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Ciò che accadrà l’anno prossimo dipende dall’evoluzione sui fronti caldi, il che a sua volta dipenderà dalla capacità dei governi di rispondere in modo adeguato

Si è appena concluso a Washington l’incontro autunnale del Fondo monetario internazionale (Fmi) e della Banca Mondiale a cui hanno partecipato, come tradizione, banchieri centrali e privati, ministri delle Finanze, politici e accademici. Si è respirato un grande pessimismo, rafforzato dalle revisioni al ribasso delle previsioni del Fmi per l’economia globale. Come è stato abbondantemente discusso dai giornali, il Fondo prevede per l’Italia nel 2023 una crescita negativa (-0,2%) che contrasta con il +0,7% stimato dal governo uscente.
Chi è del mestiere sa che prevedere il Pil al di là di due trimestri è molto difficile e infatti le stime sono continuamente riviste. All’orizzonte di un anno i numeri dipendono soprattutto da una valutazione qualitativa dei rischi. Ed è sulla valutazione di questi ultimi che bisogna ragionare.
Il primo rischio è il prolungamento della crisi energetica legato a sua volta alla crisi geopolitica. L’idea che si vada verso una normalizzazione a tempo ravvicinato sembra sempre più improbabile. Per l’Europa, grande importatrice, questo costituisce uno choc negativo di competitività che peserà sull’attività economica negli anni a venire.
Il secondo, è la persistenza dell’inflazione al di là delle aspettative che ha portato le banche centrali ad una accelerazione della stretta monetaria.
La stretta monetaria è sincronizzata a livello globale (infatti coinvolge tutti i Paesi ad eccezione di Cina e Turchia) e per questo incide pesantemente sulle condizioni di finanziamento per imprese e famiglie. Nonostante in Europa l’inflazione sia soprattutto trainata dall’energia e sia meno generalizzata che negli Stati Uniti, la Bce non può troppo discostarsi dalla politica monetaria degli Usa perché questo comporterebbe un’ulteriore svalutazione dell’euro rispetto al dollaro con un conseguente rafforzamento della spinta inflazionistica nell’euro-zona.
Quello che effettivamente succederà l’anno prossimo dipende quindi da come la situazione evolverà su tre fronti: energia, inflazione e condizioni di finanziamento. Il che a sua volta dipenderà dalla capacità dei governi nazionali e dell’Europa di rispondere in modo adeguato. Ma affinché questo avvenga la risposta dovrà essere guidata da tre consapevolezze.
1) Il problema dell’energia è al cuore di questa crisi e richiede una risposta lungimirante basata su una strategia di lungo periodo. Il problema non sarà risolto nel 2023.
2) Politiche di spesa finanziate a debito devono essere calibrate con grande attenzione perché potrebbero inasprire le condizioni di finanziamento come è avvenuto nel Regno Unito ed erodere, quindi, ogni spazio di manovra.
3) È necessaria una risposta a livello europeo per varie ragioni: raggiungere una maggiore efficienza e capacità contrattuale per l’approvvigionamento delle materie prime, il razionamento e l’immagazzinaggio; preservare il mercato unico ed evitare una competizione tra Paesi a somma zero; finanziare politiche volte ad obbiettivi comuni e in particolare a favorire la transizione verso le rinnovabili.
Agire su questa base è reso difficile dall’emergenza che spinge a soluzioni che spesso sono in contrasto con gli obiettivi di lungo termine e la evidente difficoltà a trovare un accordo in Europa su politiche comuni.
Per l’emergenza, l’Italia ha già speso sessanta miliardi, più di Francia e Germania. Lo ha potuto fare anche grazie a numeri della finanza pubblica piuttosto positivi trainati dalla crescita molto forte del 2021 e 2022 e dall’inflazione inattesa. Con il rallentamento economico e l’inflazione che si riflette oggi su tassi di interesse più alti, lo spazio di manovra si è fortemente ridotto. Questo rende difficile mettere in campo nuove misure finanziate a debito. Dobbiamo quindi lavorare sull’efficienza energetica e anche accettare tagli del consumo di gas che peraltro in Italia non si è ridotto nei primi sei mesi del 2022. Ciò che si fa per l’emergenza deve essere coerente con gli obbiettivi di lungo periodo volti a disincentivare l’uso dell’energia fossile. Da questo punto di vista il tetto al prezzo del gas non è la soluzione.
Arriviamo ora al negoziato europeo. Non c’è capitale europea che non abbia in mente la necessità di costruire una strategia comune per far fronte alla crisi, ma si stenta a convergere perché i vari Paesi hanno vulnerabilità e quindi interessi diversi. Per esempio, la Germania ha un sistema produttivo energivoro come il nostro, ma ha meno possibilità di noi di diversificare l’approvvigionamento. Da qui la reticenza di accettare misure che potrebbero portare a una repentina caduta dell’offerta di gas. La trattativa va fatta con questa consapevolezza. Demonizzare la Germania che ha stanziato (non speso) 200 miliardi in un fondo speciale dedicato a tutti gli esborsi legati alla crisi energetica per i prossimi due anni (non solo sussidi) non è molto utile e neanche giusto. Più utile battersi per dotarsi degli strumenti operativi e legali per muoversi nel mercato come un agente unico con gli ovvi vantaggi di scala. Inoltre, la richiesta di un fondo finanziato con debito comune sul modello di quello che si è fatto per il Covid sta a cuore ai Paesi piu indebitati come l’Italia, ma è evidente che non è un passo scontato. Per dare forza al progetto bisogna motivarlo come strumento per perseguire gli obiettivi strategici condivisi in campo energetico, in primis la transizione verde. Un fondo comune usato per finanziare politiche nazionali disparate e in contraddizione l’una con l’altra potrebbe addirittura essere contro-producente.
Questa trattativa è un test per capire se l’Europa saprà trovare il compromesso necessario per andare verso una vera e propria politica energetica comune facendo le riforme necessarie e rafforzando il suo impegno per gli obbiettivi verdi. Se riuscirà, sarà un altro passo verso una maggiore integrazione. Se fallirà, l’Italia e ogni altro Stato dell’Unione, subirà una perdita di competitività e dovrà fare i conti con una maggiore vulnerabilità rispetto alla sicurezza energetica. È una partita che si gioca oggi, ma guardando al futuro e il cui esito avrà implicazioni per il nostro Paese per i prossimi decenni.

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