Quel concetto è compreso nella Costituzione così come il sapere è presupposto della convivenza civile
Chi ha cominciato a stracciarsi le vesti al solo sentire che con il governo Meloni la dizione del ministero dell’Istruzione avrebbe visto l’aggiunta «e del merito», vedendo in ciò un subdolo attacco alla «scuola dell’eguaglianza» e quindi direttamente alla democrazia, mostra di sapere ben poco della scuola, dell’eguaglianza e della democrazia. Sicuramente, tanto per cominciare, mostra di conoscere poco la nostra Costituzione che all’articolo 34, parlando dell’istruzione, menziona esplicitamente «i meritevoli»: dovremmo allora dedurne che anche i padri costituenti fossero dei nemici dell’eguaglianza e magari della democrazia? E come facevano a pensare che si potesse risultare «meritevoli» a scuola — viene pure da chiedersi — se non fossero stati anche convinti che la scuola dovesse porre al centro il merito?
Ma i nemici del merito oltre a conoscere poco la Costituzione sembrano conoscere ancor meno la scuola. Infatti l’attuale scuola dell’eguaglianza che essi intendono difendere non è per nulla tale. È anzi vero l’opposto. La scuola italiana è in realtà una scuola della diseguaglianza, di una profonda diseguaglianza.
Da tutti i punti di vista gli alunni del Mezzogiorno, ad esempio, godono di condizioni dell’istruzione mediamente di gran lunga inferiori a quelle nel resto del Paese: dallo stato degli edifici scolastici, alle dotazioni degli istituti, alla qualità degli insegnanti. Così come sempre nel Mezzogiorno — ma senza che nessuno degli apostoli dell’eguaglianza se ne sia mai fatto un problema — sono assai più gravi i dati dell’evasione dell’obbligo scolastico e dell’abbandono: che in una regione come la Sicilia o in certe zone come il centro storico di Napoli raggiungono cifre spaventose. Ancora: un po’ dovunque in Italia, ma in una misura ben più alta nel Sud d’Italia, i dirigenti scolastici hanno l’inveterata e diffusa abitudine di comporre le sezioni secondo evidenti criteri di classe, raggruppando cioè in una sezione — quella con gli insegnanti migliori — tutti gli studenti figli dell’élite locale o comunque appartenenti ai ceti collocati più in alto nella scala sociale.
La verità è che la scuola italiana non è una scuola dell’eguaglianza proprio perché non è una scuola del merito. Perché da due o tre decenni tutti i fenomeni detti sopra e di conseguenza la grande disparità qualitativa dell’istruzione impartita agli studenti da regione a regione, da sezione a sezione del medesimo istituto, sono di fatto occultati dal generale orientamento alla promozione generale finale. Perché la diseguaglianza territoriale e classista viene nascosta dietro la cortina fumogena dell’ormai ridicolo rito estivo di esami di licenza finale che dalle Alpi al Lilibeo vedono percentuali di promossi regolarmente intorno al cento per cento. Tanto ci penserà poi il potere sociale delle singole famiglie a ristabilire le distanze e a mettere le cose a posto.
Senza dire che anche i più sinceri fautori dell’attuale scuola dell’«eguaglianza» (molto presunta, come si è visto), anche coloro che si mostrano i più convinti della bontà della situazione presente della scuola, non possono sfuggire ad alcune domande. Ad esempio: un sistema scolastico degno di questo nome, mi chiedo, può ammettere che in nome dell’eguaglianza o di qualunque altra più o meno buona ragione escano dalle sua aule dei quindicenni, come per l’appunto i quindicenni italiani, che per la metà, a stare alle prove Invalsi, non riescono a comprendere il significato di un testo di media difficoltà scritto in italiano? E perché mai secondo loro ciò accade? Non è finita: come si spiega che l’avvento, una trentina d’anni or sono, di questa concezione dell’istruzione con l’oggettiva forte svalutazione del merito che essa comporta abbia coinciso con la crisi e poi l’arresto definitivo dell’ascensore sociale, cioè della possibilità per le persone provenienti dagli strati inferiori della società di passare a quelli superiori? È davvero solo un caso?
Nel 1944 l’Italia democratica cancellò dal ministero di viale Trastevere la dizione «educazione nazionale» che aveva introdotto il fascismo e restaurò l’antica dizione «dell’istruzione» proprio a sottolineare come il compito della scuola dovesse essere non già quello di palestra di un qualunque pur lodevole indirizzo di sapore ideologico collettivo (la «nazione», la «democrazia») bensì quello di assicurare l’istruzione. Nella convinzione sacrosanta che per l’appunto l’istruzione, cioè la conoscenza, il sapere, la cultura siano di per sé — assai più di ogni altra cosa — il presupposto necessario per favorire la civile convivenza, per favorire nei giovani la nascita di sentimenti di benevolenza, di solidarietà, di simpatia verso i propri simili, nonché di rispetto dei diritti e dei doveri stabiliti dal proprio Paese. E naturalmente, come poi la stessa Italia democratica confermò nella sua Costituzione, l’istruzione comporta di per sé la centralità del merito. Che il governo Meloni si è solo preoccupato un po’ enfaticamente di ribadire.
Con il che, peraltro, rimane naturalmente aperto, apertissimo, il problema di come questo merito debba per così dire essere costruito, di quali ne siano per ogni disciplina i contenuti essenziali, di come gli studenti possano e debbano acquisirlo, nonché il modo più appropriato per valutarlo. Tutte questioni importanti a definire le quali concorrono l’esperienza preziosa degli insegnanti e le riflessioni di una disciplina che ha il nome per l’appunto di pedagogia. E sulle quali è giusto attendere al varco il ministro per capire meglio in quale direzione ci si muoverà. Nel frattempo, però, non sarebbe ora di iniziare sullo stato critico della nostra scuola quella discussione pubblica finalmente seria e approfondita che da troppo tempo è del tutto assente?