22 Novembre 2024
scuola

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Pensare di risolvere tutto con la supremazia dei voti numerici, con i test, le bocciature e il ritorno agli esami di riparazione a settembre, non è altro che una fantasia di ordine, campata in aria e per di più fuori tempo

Lo ammetto: sono fra coloro che — come scriveva Ernesto Galli Della Loggia in un editoriale del 22 ottobre — si sono «stracciati le vesti» per l’aggiunta della parola «merito» alla denominazione del Ministero dell’Istruzione. Mi sono stracciato le vesti quel giorno e continuo a farlo ogni volta che qualcuno rincara la dose sulla necessità di restaurare la categoria del merito, rimettendola al centro del nostro sistema educativo.
Lo capisco: parlare di merito in questi termini, come ha fatto astutamente la premier Meloni nel suo discorso di insediamento, assume una connotazione affascinante, ha il sapore dell’anticonformismo, dell’infrangere un’altra parete di cristallo, questa in particolare fatta di ipocrisia di sinistra, di assistenzialismo pernicioso, di discorsi vuoti sull’inclusività che mascherano in realtà l’immobilismo dei sindacati. Abbiamo rovinato la nostra scuola, insomma, declassando il merito.
Ma al cuore di questa affermazione, come dietro quasi ogni narrazione reazionaria, c’è un fantasma. Anzi, c’è una popolazione di fantasmi: generazioni di allievi e allieve «meritevoli» il cui cammino sarebbe stato sbarrato dalla pochezza circostante, dalla spinta al ribasso. Menti promettenti e tuttavia perdute. Ebbene, a meno di dati che mi smentiscano platealmente, temo che si tratti per l’appunto di fantasmi. Se c’è una categoria di bambine e bambini, ragazzi e ragazze, su cui la nostra scuola ha sempre funzionato a meraviglia — e continuerà a funzionare, a prescindere dai danni che le infliggeremo — è proprio quella dei «meritevoli». Anche se io, qui, preferirei usare l’espressione alternativa «adeguati alle richieste», perché la trovo più pertinente, perché quando si cerca di definire con precisione cosa significhi «meritevole» le cose si complicano parecchio, e perché questo brutto fardello dell’inclusività scolastica proprio non riesco a togliermelo dalla testa. I soggetti molto adeguati continueranno a brillare, lo faranno con insegnanti illuminanti o abulici, circondati da eccellenze come loro o da un esercito di mediocri. Magari, per colpa degli altri, si saranno infine persi qualche parte del programma di letteratura latina, ma non è questo il punto. Non è questo il punto della scuola, vero?
Magari lo è, invece. La popolazione istruita del nostro Paese — e non solo gli appartenenti a una presunta élite culturale — coltiva una nostalgia invincibile rispetto alle proprie scuole: «il mio liceo», «la mia prof di latino delle superiori», «come studiavamo Dante noi», cose del genere, un Eden perduto. Nulla di più confortante di indulgere nella mitizzazione del proprio passato scolastico e nella deprecazione del presente. Nulla di più godurioso del confrontare gli scampoli della nostra preparazione liceale con quella più scarsa dei figli adolescenti: un po’ dispiace anche, ovvio, ma la soddisfazione sovrasta il dispiacere. Ne parlo qui perché l’esaltazione rassicurante del «merito» origina dagli stessi territori dell’animo.
Ai nostalgici del proprio liceo vorrei tuttavia far notare anche questo: che la scuola di oggi cerca di includere il più possibile (come ogni scuola di ogni Paese civilizzato), ma a una crescente tutela legale è corrisposto un crescente irrigidimento dell’istituzione stessa, che ai nostri bei tempi non era tale. Una specie di inaccessibilità, sotto forma di burocratizzazione estrema e di una distanza aumentata fra docenti e famiglie. Proprio il rapporto che dovrebbe essere alla base di un funzionamento virtuoso dell’istruzione è stato disincentivato dalla sfiducia reciproca, si è trasformato in un processo pericoloso di schismogenesi. D’altra parte, la scuola si trova ad assorbire e gestire buona parte della complessità sociale lasciata intatta dalle altre istituzioni e dalla politica stessa. Non potendo evitarla, cerca come può di difendersene. Pensare di risolvere tutto questo con il principio del merito, con la supremazia dei voti numerici, con i test, le bocciature e il ritorno agli esami di riparazione a settembre, non è altro che una fantasia di ordine, campata in aria e per di più fuori tempo.
Nel suo editoriale di lunedì scorso Angelo Panebianco scriveva: «Un giovane che proviene da ambienti disagiati può migliorare la sua sorte solo se frequenta una scuola che lo obblighi a coltivare gli studi con la fatica, la disciplina e l’impegno necessari. In un posto dove il merito è secondario, nessuno è incentivato a studiare duramente. E le possibilità di ascesa sociale si bloccano». È una visione che sposta l’iniquità dall’asse economico-sociale a quello dell’adeguatezza scolastica, come se fossero ortogonali, indipendenti, e non invece strettamente correlati. Inoltre, propone una ipotetica competizione scolastica «sana» fra studenti come principio riordinante della società. Un po’ l’analogo dello sport per curare le devianze, un po’ il ricorrente e ormai insopportabile «stay hungry». In questo modo, non solo si crea una nuova distinzione arbitraria fra chi merita l’ascensore sociale e chi no, ma si nega anche la varietà delle forme di svantaggio che un mondo complesso come il nostro presenta, interseca fra loro e, per fortuna, considera anche: economiche, sociali, ma anche geografiche, emotive, famigliari, cognitive. Ciò che le accomuna, ciò che si assomiglia in ogni esperienza di svantaggio scolastico è la certezza che l’esaltazione del merito altrui non crea facilmente quella «fame» di eccellenza che condurrà infine all’emancipazione e al successo, ma per lo più altra alienazione, altro senso di non appartenenza, nuovi gap.
Sono sincero: senza un’esperienza diretta tutto questo non l’avrei capito. Se, da ex studente adeguato, non mi fossi trovato a osservare e accompagnare percorsi scolastici non altrettanto lineari, è probabile che sarei stato incapace di apprezzare la vastità e la diversità dei percorsi individuali e delle intelligenze esistenti, se non in astratto. Avrei continuato a pensare la fissità valutativa della scuola come uno strumento di misura abbastanza affidabile del valore di ognuno. In realtà, nemmeno l’esperienza in sé sarebbe bastata, se non avessi incontrato insegnanti con una visione molto più ampia della mia, pedagogicamente fondata e, sì, militante. È stato un privilegio, strettamente legato al mio mestiere. Perché quello che Panebianco ha scritto, che gli intellettuali, e più specificamente «i vincitori di premi letterari», si disinteressano alla scuola, semplicemente non è vero. Non solo i vincitori di premi letterari, ma la maggioranza degli scrittori e delle scrittrici ha un rapporto assiduo con le scuole, che si traduce in riflessioni, incontri, dibattiti e in tutta una serie di attività, compresa quella di produrre materiale su e per la didattica. E se l’obiezione successiva è quella che immagino, la risposta è di nuovo: no, non lo facciamo solo per vendere i nostri libri. Lo facciamo perché chiunque scriva ha in sé una coscienza acuita del proprio debito verso l’istruzione, verso gli e le insegnanti del suo passato, un debito talvolta molto più complicato della nostalgia, e che non si traduce solo nella consapevolezza tronfia di essere stati fra i «bravi», fra i meritevoli. Fra gli adeguati.

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