Non ci sono solo problemi di competenze e di disincentivi. E si è creato un gigantesco circolo vizioso
Giorgia Meloni è stata particolarmente creativa nel disegnare il profilo del suo esecutivo: modificando molte delle denominazioni tradizionali (come Istruzione e Merito, Imprese e Made in Italy o ancora Politiche del mare e Protezione civile). Già che c’era, avrebbe potuto osare di più e creare un nuovo Ministero: quello per le Competenze, la Formazione e la Nuova Occupazione. Non è solo una battuta. Su questi tre versanti si annida infatti una delle più serie emergenze nazionali: la mancanza di posti di lavoro. E, di conseguenza, la cronica insufficienza di reddito e il persistente rischio di povertà per moltissime famiglie italiane.
Si tratta di una emergenza molto sottovalutata nel dibattito pubblico. Tutti i giorni qualche quotidiano diffonde l’allarme di imprese che non trovano personale da assumere. Ciò induce a pensare che i bassi livelli di occupazione riflettano essenzialmente il divario fra le competenze di chi cerca lavoro e quelle richieste dalle imprese. Oppure che la colpa sia del reddito di cittadinanza, il quale rende più conveniente percepire il sussidio piuttosto che accettare una proposta di assunzione. Entrambi i fattori giocano senz’altro un ruolo. Il sistema formativo italiano funziona male. Le politiche attive sono poco efficaci, la maggior parte dei sussidiati è privo di competenze, il reddito di cittadinanza è disegnato in modo grossolano e mancano i controlli.
So no problemi che vanno seriamente affrontati. Ma anche se per miracolo fossero risolti, l’anomalia italiana rimarrebbe. Lasciamo parlare i dati. Secondo le stime della Ue, nel 2021 le imprese (manifattura, servizi e costruzioni) che hanno incontrato problemi nel reclutamento di nuovo personale sono state il 12% del totale. Tante, sì. Ma in Francia la percentuale è stata pari al 14%, in Germania al 21% e in cinque altri Paesi ancora più elevata. Ciò vuol dire che il cosiddetto mismatch (il disallineamento fra le competenze offerte e quelle richieste) non è un’esclusiva italiana ed è anzi più acuto in Paesi che hanno tassi di occupazione ben più alti dei nostri. In altre parole, il deficit di posti di lavoro non può essere imputato solo alla questione delle competenze e della formazione. Quanto ai disincentivi, i percettori di reddito di cittadinanza inseribili nel mercato del lavoro sono circa un milione, un numero più elevato rispetto alla media Ue. Immaginiamo che, eliminando il sussidio, tutti questi si mettano a lavorare. Il tasso di occupazione salirebbe un po’, ma il divario non si colmerebbe. E resterebbero comunque senza lavoro i circa due milioni di «scoraggiati», ossia persone — moltissime donne — che hanno perso ogni speranza di inserimento.
Per capire appieno le ragioni della difformità italiana, dobbiamo allora guardare al lato della domanda. Dove si concentra il deficit di occupati? Diciamo subito che non si tratta dell’industria. Le nostre imprese manifatturiere impiegano più addetti e assorbono più giovani rispetto a quelle tedesche, nonostante il mismatch. Il vuoto riguarda principalmente due settori. Il primo è l’economia «verde», ossia le attività legate alla transizione ecologica. Qui l’Italia offre circa 300 mila posti in meno rispetto a Francia e Germania, mezzo milione in confronto a Gran Bretagna e Svezia. Il secondo settore è quello dei servizi alle persone, in particolare sanità e servizi sociali: la cosiddetta economia «bianca» (dal colore dei camici dei fornitori ma anche della capigliatura degli utenti). Qui il deficit è massiccio: almeno un milione e mezzo di posti in meno. Questo ammanco sconta un quindicennio senza investimenti e con il blocco del turnover. Si è così creato un gigantesco circolo vizioso: meno posti di lavoro (in un comparto che è molto cresciuto in altri Paesi), più famiglie monoreddito con entrate insufficienti ed elevati carichi di cura, più sussidi assistenziali, meno figli, più anziani.
Il nostro ministro immaginario per la Nuova Occupazione avrebbe un’agenda molto fitta. E sicuramente non facile da realizzare. Da un lato, andrebbe a cozzare con molti interessi organizzati, presidiati da altri ministeri (Istruzione e Lavoro) e dalle Regioni (per quanto riguarda formazione, sanità e servizi sociali). Dall’altro, non avrebbe dietro di sé una coalizione sociale di sostegno. Gli scoraggiati, i minori, i non autosufficienti, le tante donne intrappolate all’interno della famiglia sono un pubblico debole, frammentato e difficile da mobilitare.
Nell’ultimo decennio, al congelamento della spesa per sanità e servizi (istruzione compresa) ha fatto da contraltare la crescita della spesa pensionistica (pensiamo alla decina di «salvaguardie» e a quota 100). Il Pnrr ha messo a disposizione risorse per le infrastrutture sociali, ma non abbastanza. Mentre, da quanto si capisce, anche la prossima legge di bilancio avrà come piatto forte l’anticipo dell’età di pensionamento. Una misura che rischia di sottrarre a sanità e assistenza ulteriori addetti e competenze. E che, abbassando il tasso di occupazione, non farà che aggravare il circolo vizioso.