Si consolida nuovamente una diversità antitetica e priva di aperture, ma l’Occidente non deve dimenticare di alzare lo sguardo sulle sfide del futuro, dove si staglia la nuova superpotenza cinese
Se trent’anni fa avessimo dato ragione a Francis Fukuyama, quando annunciò «la fine della Storia», allora oggi dovremmo dire che la Storia è ricominciata. Non è così, naturalmente, perché non si è mai conclusa. Ma quanto è successo ieri, 21 febbraio 2023, nel triangolo Kiev-Varsavia-Mosca, il nuovo epicentro dei destini europei, appartiene sicuramente a quelli che Stefan Zweig definiva «momenti fatali». Due uomini, due discorsi, due sistemi tra loro inconcil iabili.
Per la prima volta dalla caduta del muro di Berlino, una diversità antitetica e priva di aperture si consolida plasticamente tra i due campi: quello dei Paesi democratici a guida americana, in lotta per la difesa della libertà e il diritto all’autodeterminazione di ogni popolo. E quello di una Russia neo-imperiale, che il suo autocrate chiama a un lungo conflitto diventato esistenziale, chiudendo ogni residuo canale di comunicazione men che mai di dialogo verso l’esterno e alzando i ponti levatoi contro ogni influenza dell’Occidente ostile e degenerato.
Forse bisogna risalire a prima della morte di Stalin, nel 1953, per ritrovare al Cremlino le tracce di un paradigma così dominato da volontà di definitiva rottura e paranoia strategica, come quello delineato ieri da Vladimir Putin al Gostiny Dvor. Dove la verità rovesciata della guerra scatenata dall’«Occidente collettivo» e dalle sue élite, decisi una volta per tutte a «liquidare la Russia usando l’Ucraina come burattino», fa da premessa alla riaffermazione di un antico stilema: «Nella causa della difesa della Russia dobbiamo essere tutti uniti per difendere il nostro storico e più alto diritto: il diritto a essere forti», ha detto il presidente russo citando Pyotr Stolypin, il primo ministro di Nicola II dopo la Rivoluzione del 1905. Non c’è spazio per dubbi o mollezze, in questo teorema putiniano: soprattutto, «nessun dispiacere» anzi disprezzo per gli oligarchi, che hanno perso i loro capitali miliardari nelle banche internazionali e che solo tornando a investire in patria potranno redimersi.
Il coup de théâtre, la sospensione della partecipazione russa al Trattato New Start, che limita a 1.500 per parte i vettori nucleari di Mosca e Washington, è giunto al termine dei 100 minuti del discorso di Putin. Non cambia veramente lo status quo, con le ispezioni in situ di fatto sospese da più due anni, prima a causa della pandemia e poi dalle reciproche accuse di Usa e Russia di non rispettare gli impegni. Ma è fin qui la più forte indicazione che l’era del controllo degli armamenti, iniziata nell’era Breznev, sia al lumicino. È quasi impossibile, infatti pensare al negoziato per un nuovo trattato, il New Start spirando definitivamente nel 2026, nell’assoluto vuoto di comunicazione e fiducia tra i due Paesi.
A distanza di poche ore, davanti al castello di Varsavia, Joseph Biden, ha delineato un’altra visione del mondo, fondata sulla difesa della libertà e della democrazia. Reduce da Kiev, ha citato Putin una sola volta, negando con forza che l’Occidente stia cercando di attaccare o distruggere la Russia, ricordando che è stato il capo del Cremlino a scegliere la guerra. Il presidente americano questa volta non lo ha definito criminale di guerra, ha però detto chiaramente che «procederemo contro coloro che sono responsabili per la guerra». Soprattutto, Biden ha voluto giocare la partita della leadership, offrendo l’immagine di un nuovo Zeitgeist a Occidente, quasi a voler rassicurare gli alleati occidentali, preoccupati quanto alla sostenibilità nel tempo dell’appoggio militare, economico e politico all’Ucraina, com’è emerso dietro le quinte della Conferenza di Monaco.
Nel déjà-vu della Storia europea, di nuovo segnata da una profonda e al momento insanabile frattura Est-Ovest, il viaggio a Kiev e il discorso a Varsavia di Joseph Biden sottolineano tuttavia anche nuovi equilibri geostrategici. Dove il focus della politica europea degli Stati Uniti si è ormai spostato verso Oriente e i partner mitteleuropei e nordici della Nato hanno acquisito un peso maggiore di quanto non abbiano nella visione del mondo dei Paesi dell’Europa carolingia. Non è casuale che ieri nella capitale polacca, Biden abbia anche incontrato i leader dei cosiddetti «Nove di Bucarest», cioè Bulgaria, Estonia, Romania, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Repubblica Ceca e Ungheria. Sono questi ora gli Stati della nuova frontiera occidentale, così come la Germania lo era durante la Guerra Fredda. Mentre l’Ucraina libera in lotta per la libertà e l’indipendenza ha ora l’aura che Berlino Ovest aveva durante la Guerra Fredda.
Nel buio a mezzogiorno di un quadrante europeo di nuovo preda del passato che ritorna, oltre a fermezza e coesione, l’Occidente non deve però dimenticare di alzare lo sguardo sulle sfide del futuro, dove non si staglia la Russia arretrata e blindata di Vladimir Putin ma la nuova Superpotenza cinese. E cercare il giusto equilibrio tra l’imprescindibile sostegno a Kiev e la necessità di evitare che Pechino identifichi nell’alleanza con Mosca la sua nuova priorità strategica.