Perfino il primo esecutivo dotato di una maggioranza elettorale da un decennio a questa parte non potrà viaggiare come un treno ad alta velocità
Ma come? Il governo Meloni non era così forte e coeso da poter realizzare il suo programma senza che niente e nessuno lo rallenti? Non disponeva di una maggioranza parlamentare tale da poter fare tutto ciò che vuole? E invece ci risiamo: un po’ di competizione interna, gli «stop and go» sulla giustizia, l’autonomia regionale a rilento, qualche tensione sul fisco. Intendiamoci: niente di irreparabile. Ma la sensazione che perfino il primo governo dotato di una maggioranza elettorale da un decennio a questa parte non potrà viaggiare come un treno ad alta velocità, ma sarà costretto a fare i conti con la realtà della politica italiana, un infinito braccio di ferro aspettando le prossime elezioni.
Al cuore delle differenze tra i partiti che compongono la maggioranza c’è una questione politico-culturale non da poco. La destra di Giorgia Meloni viene da una tradizione che privilegia il potere pubblico sull’autonomia della società civile, più autoritaria che liberale, e dunque allo stesso tempo più dotata di senso dello Stato ma anche più dipendente dallo statalismo. Mentre in quel mondo, soprattutto settentrionale, in cui è nato il movimento che Edmondo Berselli chiamava del «forzaleghismo», è più centrale l’individuo, il privato, con le sue libertà e anche con le sue licenze: non a caso si è manifestato ai suoi albori, negli anni ‘90, come rivolta anti fiscale.
Q uesta dicotomia spiega tante cose: il freno di Giorgia Meloni all’ultragarantismo di Nordio e anche alla polemica contro le inchieste antimafia di Marina Berlusconi; la spinta quasi poujadista di Salvini per un condono delle cartelle esattoriali; i dolori del «giovane» Tajani, incerto tra la ripresa di un’iniziativa politica autonoma di Forza Italia e la paura di indebolire un governo al cui riparo ha messo la sua leadership.
Il problema che ne deriva è però finora più mediatico che politico. Giorgia Meloni gode infatti, per una serie di fortunate circostanze, di una condizione che nemmeno il Berlusconi dei tempi d’oro aveva: un implicito potere di scioglimento delle Camere. Non c’è infatti in questo Parlamento nessuna maggioranza alternativa possibile al suo governo. E non c’è perché il Pd di Schlein non potrebbe più sostenere un governo di unità nazionale, come invece avvenne quando Monti sostituì il Cavaliere e quando Draghi sostituì Conte. Così come i nuovi Cinquestelle non parteciperebbero mai a governi del genere. Dunque, se messa alle strette, la premier può sempre dire: o così o pomì. Dove il «pomì» è la minaccia di tornare alle urne. Siccome gli altri due soggetti della coalizione non sono elettoralmente fortissimi, anzi; e siccome finora il consenso per il governo e la premier non è sostanzialmente cambiato di un ette dal giorno delle elezioni; e siccome l’opposizione non è unita, anzi il «centro» sta spesso con la maggioranza, se ne deduce che così andrà avanti per un po’.
Ciò nonostante, i problemi del governo restano. Deve procedere con cautela, rinunciare a qualche riforma per quanto spettacolare possa apparire, moderare i toni qui e là, tastare il terreno sempre prima di agire, controllare ogni volta che va in aula la presenza e compattezza della sua maggioranza parlamentare. E questo non solo per le tensioni interne che abbiamo descritto. Ma anche per una peculiare forma di divisione dei poteri del nostro sistema politico. Il quale è passato dal «consociativismo» della prima Repubblica al «decisionismo» della seconda. Senza però cambiare le regole istituzionali, ma solo in virtù di un succedersi di leggi elettorali più o meno maggioritarie.
Questo handicap pesa su ogni governo, perfino su quello elettoralmente più forte. Esalta infatti il potere di veto di gruppi di interesse e di categorie (per esempio i magistrati). E convive con la migrazione dei poteri, verso il basso e verso l’alto. Le Regioni, per esempio, sono oggi in grado di condizionare in maniera bipartisan le decisioni del governo. Se questo vuole reintrodurre l’elezione degli organismi rappresentativi della Province, quelle chiedono in cambio il terzo mandato per i governatori. E verso l’alto c’è l’Europa, che può dire la sua anche sulla riforma dell’abuso di ufficio perché è ormai un legislatore continentale, e le sue norme sono parte integrante del nostro sistema giuridico.
C’è infine, last but not least, il costante lavoro di controllo e talvolta di supplenza che il Quirinale esercita attraverso forme di moral suasion , e che nessun governo può ignorare (ecco a che servono i sottosegretari alla Presidenza, oggi Mantovano, ieri Letta).
Il potere che si concentra a Palazzo Chigi è dunque grande, ma non grandissimo, in ogni caso non paragonabile a quello che esercita Downing Street o la Cancelleria tedesca. Il che da un lato deve rassicurare tutti coloro che temono, o denunciano, una svolta autoritaria o addirittura anticostituzionale: abbiamo un sistema di pesi e contrappesi che la impedirebbe. Ma dall’altra parte ci deve far interrogare anche oggi, anche dopo una vittoria elettorale così netta, sull’opportunità di una riforma dei poteri del governo, e dunque anche sulla riforma dei poteri del Parlamento. Perché che sia presidenzialismo, premierato o cancellierato, un nuovo assetto richiederebbe in ogni caso un Parlamento più forte. Il cui potere non consista come oggi nella possibilità di rallentare l’azione dell’esecutivo, ma piuttosto nel controllarlo e sanzionarlo quando travalica le sue prerogative.