19 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

Musulmane

di Barbara Stefanelli

Tutte a Colonia, il 4 febbraio. È la chiamata di queste ore: corre lungo i fili digitali e unisce donne anche distanti ma ugualmente accese dalla volontà di non cedere neppure un palmo di terreno libero conquistato. A Colonia, a Colonia. Quello renano sarà un Carnevale speciale, festeggeremo il diritto di uscire la sera, di uscire senza pensare (a come sei vestita, a chi ti accompagnerà a casa), di uscire fuori: fuori dai codici scritti per noi prima di noi, fuori dalle previsioni su dove andrai mai nella vita, fuori da qualunque destino non sia quello che — impastando fatica e desideri — hai scelto di costruire con i tuoi mattoni di bambina, di adolescente, di adulta.

La notte nera di Colonia, una città tedesca come molte altre in Europa, sta disegnando una frontiera immateriale: la politica delle porte aperte ai migranti non può prevedere una via d’uscita che si chiuda sui diritti delle donne. Gli autori dell’accerchiamento di massa a Capodanno — per violentare e rubare e umiliare — non possono essere i profughi siriani dell’ultima ora, ma sono con tutta probabilità i rappresentanti di comunità che crescono chiuse, illiberali, furiose ai margini dei nostri centri. È il momento di trovare una voce che — se pure tra le incertezze — ci permetta di parlare di donne e Islam, come di donne e religioni, di donne e cultura maschilista. Perché è vero che l’emancipazione femminile, profonda e ampia, resta la prova più straordinaria che ancora dobbiamo affrontare insieme.

Ed ecco un’altra chiamata. Anche questa arriva dalle donne, la convocazione è di nuovo per febbraio: l’1 sarà la Giornata del velo, la terza dal 2013. La sigla in inglese è WHD, World Hijab Day. L’idea di chi l’ha organizzata — Namza Kahn, emigrata ragazzina dal Bangladesh al Bronx e costretta nel tempo ad affrontare vari sospetti d’Occidente — è quella di unire le forze di musulmane velate, musulmane non velate e non musulmane: per 24 ore di condivisione e solidarietà.

Donne di tutte le religioni — e se possibile donne non religiose affatto — unite contro l’islamofobia che avanza come un potente opaco anticiclone rispetto alla mappa dei flussi migratori globali. Il motto dell’evento reclama «una consapevolezza più profonda, per una migliore comprensione, in un mondo di pace». Un gesto che appare semplice: coprirsi il capo e non temere per un giorno di vestire un simbolo, un segno identitario di altre donne e di altre vite. Di più. Indossare il velo e abiti larghi è una garanzia di privacy, un atto femminista «di indipendenza dagli sguardi sciovinisti e predatori degli uomini», come spiega sul New York Times chi sostiene la Giornata del velo.

Siamo così tornati nella piazza di San Silvestro. Dobbiamo davvero difenderci dallo sguardo di possesso e predazione degli uomini? È consigliabile poi tenere per sicurezza «un braccio di distanza» se quegli uomini sono stranieri — come ha proposto maldestramente la sindaca di Colonia nel clamore della conferenza stampa? A chi appartengono i miei capelli? Al vento, al sole, al marito che verrà?

La prima volta che sono inciampata in questa che non mi era mai sembrata una gran questione mi trovavo a Vienna, durante un corso estivo all’università. Sotto di me, nell’aula magna, c’era una studentessa egiziana, nascosta dalla testa ai piedi da un manto nero che pareva pesante. Non hai caldo? Le aveva chiesto un compagno di banco senza farsi troppe storie. «No — aveva risposto subito lei, forse temendo da sempre di dover dare spiegazioni – Mi vesto così perché preservo il mio corpo per l’intimità esclusiva che mi unirà al mio sposo e padre dei nostri figli». E perché lui, nel frattempo, non dovrebbe preservare i suoi capelli e il suo corpo a te che sarai la sua sposa? Lo avevo domandato senza intendere alcuna provocazione, avevo rovesciato su di lei un principio che a me pareva di equità e venne invece interpretato come un atto definitivo di ostilità culturale tra noi.

Abbiamo impiegato decenni, forse secoli, in Occidente a toglierci i veli della nostra di cultura. E ancora, a volte, ci sorprendiamo a cercare riparo nel contegno per superare il disagio improvviso che ci prende quando ci sentiamo esposte. Quell’eterna esortazione alla modestia, alla purezza se non alla verginità, infine alla sottomissione a un ordine di regole e di misure che ci precede.

Rimetterci ora il velo dell’Islam per manifestare pluralismo sarebbe sì un gesto di rottura di ogni schema e confronto, ma anche un gioco mimetico inquietante. La tentazione di andare contro la stupidità feroce degli xenofobi, che sulle femmine hanno pensieri simili agli aggressori di Capodanno, non basta. E non giustifica un relativismo che finirà per rubarci le parole. Almeno finché a tutte le donne che vivono in regimi, pubblici e privati, all’interno dei quali è dovere coprirsi non sarà permesso dire «no».

No anche a un fazzoletto se indesiderato, no al silenzio sulle nostre ambizioni, no alle ossessioni degli altri, alle raccomandazioni, no alle prediche sul rispetto sociale riservato a chi non provoca turbamento.

Sulla testa delle donne si combatte. Nelle piazze, nelle case, lungo i fronti di guerra. A Colonia, a Raqqa, a Roma. Nella confusione di questi giorni, alla ricerca di soluzioni o anche solo di voci da ascoltare, la prima risposta a qualunque violenza è farsi conoscere/riconoscere per quello che siamo e vogliamo diventare. A chi appartengono i miei capelli? Al vento, al sole, solo a me.

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