23 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

LaPresse - La Stampa

di Ernesto Galli della Loggia

Il fatto che Berlusconi punti esplicitamente tutto su Parisi, senza alcun passato politico nel suo partito, mostra che nell’ambito di Forza Italia non è nato nulla. Perché la legge che regolava i rapporti era l’obbedienza, non la fedeltà, che è un valore molto diverso

l dato più sorprendente della recente cronaca politica è stato lo scoprire quanti deputati e senatori di Forza Italia sembrano credere davvero di essere stati eletti dai loro elettori, pensano davvero di avere dietro di sé qualcuno che li ha scelti e votati per le loro idee e/o capacità anziché per la loro presenza in lista voluta da Berlusconi. «Ma come si permette questo Parisi — è stata infatti la loro reazione al tentativo dell’ex candidato a sindaco di Milano di dare un nuovo volto alla Destra italiana — come si permette questo qui, dopo aver ottenuto appena il 49 per cento dei voti dell’elettorato ambrosiano, di montare in cattedra e di venirci a fare la lezione? Proprio a noi che facciamo politica da anni, da anni occupiamo meritatamente i nostri scranni a Montecitorio e a Palazzo Madama, che in qualche lustro abbiamo rilasciato almeno alcune centinaia di dichiarazioni e frequentato forse altrettanti talk show televisivi?». Intendiamoci: ciò non vuol dire che non possa esserci chi è stato effettivamente designato alla carica che occupa sulla base dei propri meriti. Mi chiedo solo se tra questi ci sia per esempio anche il presidente della Liguria Giovanni Toti, uno tra i più arrabbiati e decisi a sbarrare il passo all’intruso.

In realtà, proprio il fatto che ora Berlusconi punti esplicitamente tutto su Parisi — cioè su uno senza alcun passato politico nel suo partito — mostra che il Cavaliere per primo si è accorto di quanto era peraltro chiaro a tutti da moltissimo tempo. Cioè che in tutti questi anni nell’ambito di Forza Italia non è nato nulla. Non una persona, non un’idea, un disegno politico, cui affidare una qualunque successione. Se n’è accorto lui per primo perché lui per primo ha voluto che fosse così, naturalmente. Lui per primo, infatti, ha voluto che il partito chiamato a rappresentare la Destra fosse principalmente se non esclusivamente un strumento per la sua difesa: dunque solo una sigla per la raccolta di voti e uno strumento d’influenza (neppure di governo: come si è visto…). Ed è per questo che egli non ha avuto bisogno intorno a sé che di persone le quali alla fine facessero una cosa sola: obbedissero.

L’obbedienza, non la fedeltà (che è tutt’altra cosa), è stato il requisito davvero essenziale per far parte del personale politico di Forza Italia. Tranne casi rari (e messi regolarmente nell’impossibilità di emergere), la Destra è stata così condannata ad avere dei parlamentari che in vent’anni non hanno certo brillato per aver preso una qualche iniziativa davvero popolare, per il coraggio di una denuncia rischiosa, per una battaglia importante. Quanti di loro, ancora, hanno mai chiesto poi un congresso del partito o hanno messo vere radici in un collegio elettorale? Quei parlamentari, d’altra parte, sapevano bene che il deus ex machina Berlusconi non certo per fare cose simili li aveva prescelti tra i mille postulanti desiderosi di occupare un posto equivalente di fatto a una sinecura. Ma stando così le cose, che adesso proprio essi facciano gli indignati perché Parisi non avrebbe le carte in regola che loro non hanno mai avuto, appare davvero il colmo del paradosso se non piuttosto dell’impudenza.

È vero, peraltro, che anche la designazione di Parisi si deve alla pura e semplice volontà del Cavaliere. Ma è importante — e sta qui una vera novità, una rottura oggettiva rispetto al «berlusconismo reale» dell’ultimo ventennio — che una tale designazione a Parisi non sia bastata. Che egli abbia deciso di sovrapporle o affiancarle, si può adoperare la parola che più piace, una sua iniziativa autonoma, una ricerca d’identità e di programma a lui solamente riferibile, come sarà appunto il convegno-manifestazione che si annuncia per metà settembre a Milano. Non si tratta solo, io credo, dell’ovvio desiderio di sottolineare la propria autonomia (e quindi la propria libertà). Molto probabilmente Parisi ha capito che nell’epoca della personalizzazione della politica l’investitura alla leadership non può venire dall’alto, per concessione di chicchessia. Deve essere guadagnata personalmente sul campo. E a volte anche contro il proprio stesso schieramento d’appartenenza.

Da questo punto di vista è significativa una certa somiglianza che esiste tra la parabola di Parisi e quella di Renzi. Entrambi partono da una base di consenso cittadino. Da qui entrambi si lanciano nel tentativo di ottenere il posto di comando nel proprio partito ma entrambi sono costretti a farlo contro di esso, o meglio contro il suo establishment. Renzi lo fa attraverso le primarie; Parisi invece, che non può contare su nessun movimento dal basso, non può che provarci con una spinta dall’alto dovuta a Berlusconi. Un Berlusconi che, riscoprendosi quel formidabile conoscitore degli orientamenti del pubblico, ha deciso in certo senso di passare all’opposizione del suo stesso partito e, realizzando una versione casareccia della rivoluzione culturale e del «Grande Timoniere», ne ha affidato le sorti al novello Lin Piao Stefano Parisi. Il quale, tuttavia, piuttosto che esibire il titolo di «più fedele compagno d’armi» del vecchio presidente, dovrà cominciare da subito a far vedere cosa vale, cominciando con il redigere l’inventario dell’ambiguo e non proprio ricchissimo asse ereditario che gli sarà consegnato.

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