Fonte: La Repubblica
di Ilvo Diamamti
Nel Regno Unito l’atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco. L’emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni
Si è aperta, in Italia, una stagione di democrazia diretta. Segnata da due referendum con diverso contenuto e diverso significato. Fra due settimane: la trivellazione dei pozzi petroliferi. In autunno: le riforme costituzionali. Ma il ricorso alla consultazione referendaria va ben oltre i nostri confini e le nostre questioni interne, per quanto importanti. Nel Regno Unito, nei prossimi mesi, si voterà per restare nell’Unione Europea. O meglio: per uscirne. D’altronde, i cittadini del Regno Unito non hanno mai amato l’Europa.
Come comunità economica. Tanto meno come soggetto politico. E questo sentimento si è complicato e accentuato negli anni della crisi economica. Quando il debito comunitario e degli Stati membri è cresciuto. Minacciando anche coloro che ne erano e ne sono meno responsabili. Come, appunto, l’Uk. Così lo spirito euroscettico si è diffuso ulteriormente. Solo un terzo dei cittadini del Regno Unito, infatti, esprime fiducia nei confronti della Ue. Come in Italia, peraltro. Dove, però, prevale un atteggiamento tattico e disincantato. Visto che la maggioranza della popolazione non “ama” la Ue – e tanto meno l’euro. Ma teme di uscirne. Per prudenza. Gli italiani: si dicono europei “malgrado”. Nonostante tutto. I cittadini del Regno Unito: molto meno. Il loro legame con le istituzioni europee è più precario. Perché confidano maggiormente nel loro sistema di governo. E, tanto più, nella loro moneta. In politica internazionale, peraltro, si sentono “atlantici”. Guardano, cioè, agli Usa piuttosto che all’Europa. Piuttosto che alla Ue.
Così, l’atteggiamento euroscettico si è tradotto in voglia di distacco. Tanto che Ukip, il partito guidato da Nigel Farage che predica apertamente l’uscita dalla Ue, alle elezioni europee del 2014 ha superato il 27%. L’emergenza sollevata dalla grande migrazione degli ultimi mesi ha accentuato le tensioni. All’interno del Regno Unito. E fra il Regno Unito e i Paesi europei. Per prima: la Francia.
Oggi, dunque, ci stiamo avvicinando a questo passaggio. Senza ritorno. Perché un voto favorevole all’uscita dalla Ue aprirebbe una crisi probabilmente fatale in una costruzione fragile e instabile come la Ue. Con il rischio di riprodurre le fratture anche nel continente. Dove i legami con l’istituzione europea risultano poco solidi. Ad eccezione che in Germania e nei Paesi dell’Est che ambiscono a farne parte. I sondaggi, al proposito, confermano dubbi e incertezze. Visto che disegnano uno scenario aperto. Dove i sì e i no all’uscita dall’Unione Europea si equivalgono (intorno al 35-40%). Mentre gli indecisi sono ancora molti. Circa un quarto. E risulteranno, per questo, decisivi. Così, la campagna in vista della scadenza referendaria si fa sempre più accesa. E l’argomento che sta assumendo importanza crescente è il costo della Brexit. Per gli europei, ma ancor più nel Regno Unito. La cui economia, si sostiene, soffrirebbe molto, in caso di “defezione”. Tuttavia, questa minaccia non sembra scoraggiare chi, in fondo, ne tiene già conto. E, nonostante tutto, sceglie la strada della “secessione”.
Diverso, semmai, è il discorso per i cittadini europei che non vivono nel Regno Unito. I quali verrebbero, inevitabilmente, coinvolti da questa scelta. Tuttavia, gli atteggiamenti, in proposito, appaiono differenziati e incerti. Almeno in Italia. Perché, probabilmente, molte persone non ci hanno ancora pensato. D’altronde, se per i cittadini del Regno Unito, è difficile decidere, figurarsi per gli altri…
In Italia, comunque, metà della popolazione (intervistata da Demos) teme l’uscita del Regno Unito dalla Ue. Ritiene, infatti, che produrrebbe effetti negativi non solo nel Regno Unito. Anche da noi. Ma ciò significa che l’altra metà la pensa diversamente. In particolare, due italiani su dieci non percepiscono il rischio di conseguenze particolari. Si tratta, soprattutto, degli elettori più disincantati e indifferenti. Gli “astenuti”. Non solo dalla politica, anche dall’Europa. Quelli che tracciano i confini del proprio orizzonte pubblico a poca distanza da loro. Una frazione molto limitata vede questa scelta pericolosa per il Regno Unito ma non per l’Europa. Mentre è molto più elevata (15% circa) la quota di coloro che ritengono l’uscita dell’Uk un problema per gli europei, ma, al contrario, un beneficio per i cittadini britannici. Poco inferiore è il consenso alla Brexit “senza se e senza ma”. Considerata un beneficio per tutti. Senza eccezione.
I tifosi della defezione sono, in tutti i casi, ben definiti e identificabili. Hanno, cioè, un profilo politico coerente. Partecipano, infatti, alla corrente euroscettica. Sono, per questo, particolarmente numerosi fra gli elettori della Lega e di Forza Italia. In misura relativamente più limitata, nella base del M5s. Tra coloro che esprimono sfiducia nei confronti della Ue, in particolare, sono tre volte di più che tra gli euro-convinti. Rispecchiano, in qualche misura, le preferenze politiche di coloro che vedono nella Brexit un beneficio esclusivo per chi vive nel Regno Unito.
È facile comprendere la ragione di questo orientamento. Non si tratta solo di empatia. È di più: identità. Sostegno convinto. Segno che anche in Italia c’è chi tifa per la Brexit. In modo aperto. Esplicito. Perché favorisce un progetto sostenuto da altri movimenti e soggetti politici, di altri Paesi. In altri termini: chi tifa per la Brexit, in Italia, tifa per la fine della Ue. Immagina e spera che la costruzione europea, in seguito alla defezione del Regno Unito, non solo subirebbe una battuta di arresto, ma potrebbe intraprendere un percorso inverso. Verso la disgregazione invece che verso l’unità.
Per questo il referendum che si svolgerà nell’Uk ci riguarda direttamente. Quanto, almeno, quello sulle trivelle. E persino il referendum costituzionale. Perché nel Regno Unito, in quell’occasione, si voterà anche per noi. Visto che si scrive Brexit, ma si può leggere Itexit.