19 Settembre 2024

Il paradosso tutto italiano che si presenta ogni anno  tra maggio e settembre con i festival, vere e proprie risacche di resilienza e resistenza civile analogica. Poi  farà da contraltare il deserto angosciante delle librerie (almeno fino a Natale)

C’è un paradosso tutto italiano, una passione non consumata, che si presenta tra maggio e settembre, insieme agli acquazzoni: il feticismo platonico per i libri. Andando a scomodare Aldo Manuzio, lo stampatore di Erasmo da Rotterdam, potremmo vantarci di averli inventati i libri, nella forma più moderna del «tascabile». Scavando — e a rischio di apparire egocentrici — potremmo anche raccontare di averli protetti quando erano dei bambini fragili, grazie al «privilegio di stampa». Potremmo anche produrre una lista che non teme confronti, quella dei libri che hanno cambiato la storia, a partire dal Liber Abbaci del Fibonacci del 1202 che introdusse la matematica e gli algoritmi (sic!) nella cultura occidentale.
Ed eccoci nel girone infernale per la superbia: per un pelo non abbiamo imposto anche la tecnologia della stampa a caratteri mobili che il feltrino Panfilo Castaldi sviluppò in parallelo a Gutenberg. Qual è dunque il paradosso? È quello dei festival dei libri che attirano eserciti di professionisti della curiosità, della pazienza e delle file a Torino, Taormina, Mantova e Pordenone fino giù a Capo Vaticano, dove si è appena tenuto con ostinazione un appuntamento diretto dalla figlia Antonia dello scrittore di Male Oscuro, Giuseppe Berto. Passerà un mese e all’entusiasmo dei festival, vere e proprie risacche di resilienza e resistenza civile analogica, farà da contraltare il deserto angosciante delle librerie (almeno fino a Natale). Come se il popolo dei festival arrivasse da Marte, per sussurrarci dei titoli. E poi ripartire, speriamo almeno con i libri.

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