Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
La nostra difficoltà di collocazione non è solo colpa del governo, delle sue idee o della sua inesperienza. È la situazione internazionale che è molto cambiata, rendendo i contorni delle alleanze e delle convenienze più difficili da interpretare
La polemica che si è aperta nel governo sull’accordo Italia-Cina dimostra che il sovranismo è una categoria politica molto relativa, per quanto assoluta e inflessibile voglia apparire. È bastata infatti una intesa bilaterale, anzi, un memorandum di intesa, per far temere a Salvini il rischio di una «colonizzazione» dell’Italia. Dopo mesi passati a difendersi da un’Europa dipinta come nemica, eccoci qui a scoprire che ogni relazione internazionale comporta un condizionamento, quando non una limitazione, della propria sovranità. Perché così funziona il mondo interconnesso; e se non sei connesso, non sei.
Ma se il sovranismo è fragile e fallace come tutti gli «ismi», la sovranità è una cosa seria. Il termine, di origine medievale, viene dal francese, e identifica la qualità del potere dello Stato sovrano, non più dipendente da poteri esterni e universali, come erano l’Impero e la Chiesa. Nel mondo di oggi ci sono però solo due modi per non dipendere dagli altri: disporre di una potenza, economica e/o militare, tale da poterne fare a meno; oppure fare accordi con loro nel comune interesse. Non credo che si debba specificare quale sia l’opzione praticabile per l’Italia.
L’accordo Italia-Cina rientra in questa fattispecie? Si direbbe di sì. È ovvio che la Cina sta perseguendo un obiettivo di espansione della sua influenza e dei suoi commerci in Europa, e ci sta utilizzando come porta d’ingresso. Ma è altrettanto intuitivo che la Via della Seta sbuca nel Mediterraneo (sperando che non si fermi in Val di Susa); e non ci sono molte altre strade per rilanciare il nostro Paese, e soprattutto il nostro Mezzogiorno, che non passino dal Mare Nostrum.
Il problema dunque non è l’accordo. Il problema siamo noi, intesi come Italia e suo governo. Ciò che infatti genera sospetto quando non allarme nei nostri tradizionali alleati in America e in Europa è ciò che è avvenuto prima, e quello che può accadere dopo. Il problema è che, da quando è nato, il governo giallo-verde non ha dato un solo segnale chiaro di quale sia la direzione di politica estera che vuole imprimere all’Italia. Verso Budapest e Varsavia? O verso Mosca? Verso Trump o verso Xi Jinping?
Non che si debba per forza scegliere con chi stare, intendiamoci; ma da quale parte stare sì. I democristiani, durante la Prima Repubblica, scelsero con tanta nettezza da che parte stava l’Italia che poi si poterono permettere più di qualche affare fuori dal giro.
Invece, per il momento, il governo italiano appare abbastanza infido a tutti, e i nostri soliti giri di valzer preoccupano dunque di più. E non mi riferisco al ministro Moavero, che fa onestamente il suo lavoro di garantire un po’ di continuità negli affari correnti con la politica tradizionale della Farnesina. Mi riferisco alle due forze politiche che sono al governo, dando vita a un esperimento unico in Europa: basta leggere l’elenco dei movimenti con cui hanno scelto di allearsi alle prossime Europee per capire quanto unico.
Salvini sembra più consapevole del problema. Partito come un fan di Putin, l’abbiamo visto virare verso Trump sul Venezuela. E ora frena sulla Cina, mostrando alla Casa Bianca le sue credenziali a-tlantiche. Allo stesso tempo piccona ogni volta che può l’Europa, il che farà certamente piacere sia a Trump che a Putin, ma di certo non ai nostri vicini, con i quali è più vitale il nostro scambio commerciale. Rischia così di segare l’albero su cui siamo seduti. Perché anche un accordo con la Cina è un’altra cosa se fatto nel quadro di una consultazione con i nostri partner e nel rispetto delle regole comuni (va ricordato che il commercio internazionale è materia per la quale la sovranità nazionale è già totalmente delegata a Bruxelles, ed è sua competenza esclusiva, come la moneta per Francoforte).
Naturalmente la nostra difficoltà di collocazione non è solo colpa del governo, delle sue idee o della sua inesperienza. È la situazione internazionale che è molto cambiata, rendendo i contorni delle alleanze e delle convenienze più difficili da interpretare. Oggi l’America di Trump è un alleato sui generis, perché da un lato pretende di gestire da sola il rapporto con la Cina nel Pacifico, ma dall’altro chiede fedeltà dall’Europa sull’Atlantico. La nuova Casa Bianca sembrerebbe isolazionista quando cerca il suo interesse, ma riprende a esercitare egemonia sugli alleati quando i suoi interessi sono a rischio. Allo stesso tempo l’Europa, il potere che ci vorrebbe ma non c’è, probabilmente continuerà a non esserci anche dopo le elezioni europee. Il disordine è grande sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente. Il mondo rischia di infilarsi nella «trappola di Tucidide», descritta dallo storico Graham Allison sul modello del confronto tra Atene e Sparta nella Grecia antica: «Quando una potenza in rapida ascesa (la Cina) diventa un rivale per la potenza dominante (gli Usa) sorgono dei problemi; in undici dei quindici casi in cui questo accadde negli ultimi 500 anni il risultato fu la guerra».
Magari stavolta sarà digitale. Ma questa è la portata della sfida in corso. È una cosa più grande di noi. Ma proprio per questo non possiamo andare avanti ancora a lungo senza una politica estera.