Fonte: La Stampa
L’approvazione del ddl Cirinnà rappresenta una tappa fondamentale per la modernizzazione della società italiana. Ma non è certo il punto di arrivo. Piuttosto è il punto di partenza. La questione omosessuale è solo la punta d’iceberg di un fenomeno assai più ampio, che ci vede fanalino di coda in tutto l’Occidente: la discriminazione di genere. Le donne, cioè la maggioranza della popolazione, in Italia hanno minore reddito (anche a parità di lavoro).
E anche minore rappresentanza politica e sociale, minore possibilità di affermarsi secondo il merito e di realizzarsi nella vita seguendo le proprie inclinazioni. Ne hanno meno rispetto agli uomini e ne hanno meno rispetto a tutti gli altri Paesi avanzati. I dati sulle statistiche internazionali sono su questo eloquenti, impressionanti. L’indice mondiale sulla differenza di genere, che da 0 a 1 misura il divario fra uomini e donne in base a criteri economici, politici e sociali, nel 2014 vede l’Italia sessantaseiesima, su 136 paesi. Nella parte bassa della classifica. Tutti i Paesi dell’Europa occidentale, gli Stati Uniti e il Canada, l’Australia, finanche l’Argentina, si trovano nelle prime 30 posizioni. Noi siamo un caso a parte.
È sconcertante che non se ne parli mai. La discriminazione sistematica – economica, sociale e culturale – nei confronti di oltre metà della nostra popolazione non riceve da noi quasi nessuna attenzione. Questa situazione ha ricadute negative anche sulla crescita economica, giacché in sostanza impedisce a milioni di persone di sviluppare tutto il loro potenziale, anche lavorativo. E non è un caso che al Sud il problema sia più grave che al Nord: sul perdurante divario fra il Mezzogiorno e il resto del Paese, che negli ultimi anni ha continuato ad allargarsi, pesa la questione di genere.
È sconcertante, forse però non sorprende. Saremmo già una società meno maschilista, se almeno ne parlassimo. E anche il dibattito di queste settimane sul ddl Cirinnà, per come è andato prendendo corpo soprattutto nel mondo dell’informazione e fra la classe politica, dà l’idea di quanta strada ci sia ancora da fare. Mentre tutti gli studi scientifici indicano chiaramente che non vi è alcuna differenza, per il benessere del bambino, a seconda che venga cresciuto da genitori di sesso diverso o dello stesso sesso, da noi si dà per scontato che la differenza esiste; peraltro senza mai accennare al fatto che, se problemi vi sono, questi si devono non certo all’ambiente famigliare, ma alla società che discrimina (e che quindi spetterebbe alla politica non solo di fare la legge, ma anche di promuovere una cultura del rispetto). La conseguenza è che, sull’altare di pregiudizi del tutto privi di riscontro scientifico, si è disposti a sacrificare, ci stiamo avviando a sacrificare, proprio i diritti dei minori che tutti dicono di voler proteggere. E qual è questo pregiudizio, venendo al sodo? Quello secondo cui le donne fanno inevitabilmente le cose in un certo modo, gli uomini in un altro. Il maschilismo, appunto.
Recentemente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha insistito sul fatto che un testo sulle unioni civili, senza l’adozione del configlio, non risolverebbe il problema delle discriminazioni nei confronti delle persone dello stesso. Ha ragione, e sarebbe bene che i nostri governanti se ne ricordassero. Ma potremmo aggiungere, l’evirazione dell’articolo 5 sarebbe anche, sul piano culturale, un ostacolo sulla strada della più ampia uguaglianza di genere: un esplicito tributo a una presunta inesorabilità della divisione dei ruoli su cui si è fondata, per millenni, la vessazione nei confronti dell’altra metà del cielo.
La posta in gioco sul ddl Cirinnà non riguarda quindi solo una minoranza, ma coinvolge tutti. Proprio come riguardavano tutti le leggi sul divorzio e contro l’aborto clandestino, o la riforma del diritto di famiglia nel 1975: riforme approvate con un’ampia maggioranza parlamentare che hanno fatto fare enormi passi avanti alla società italiana. Certo, le leggi da sole non bastano. Quella contro la discriminazione di genere è una grande battaglia sociale e culturale che non può dirsi conclusa nemmeno in Paesi più avanzati di noi e che deve allargarsi a tutte le minoranze (ad esempio le persone transessuali, dal nostro ordinamento semplicemente ignorate). Passa attraverso un’opera profonda di sensibilizzazione nelle scuole, opera sabotata da gruppi oltranzisti che – mentre ci sono giovani che muoiono ancora di omofobia e di bullismo – ritengono che sia sbagliato insegnare ai bambini il valore della diversità e il rispetto per le identità di tutti.
Ma le leggi sono importanti. Quelle buone possono fare avanzare la società e promuovere un clima diverso, offrendo a chi si sente discriminato tutela giuridica e quindi più forza – anche sul piano morale e culturale – per far valere i suoi diritti. E i governi possono fare molto. Non è un caso che con Zapatero la Spagna sia arrivata al dodicesimo posto nell’indice sulla differenza di genere. Distante anni luce di noi. Zapatero portò avanti un programma contro le discriminazioni di genere avanzatissimo, non solo sulle unioni omosessuali: le sue leggi hanno reso la Spagna un Paese più libero e anche più giusto (sono forse l’eredità migliore, e largamente condivisa, di quella stagione politica). Noi che allora perdemmo quell’appuntamento, finendo per scivolare all’ultimo posto nell’uguaglianza di genere, di buone leggi abbiamo ormai disperatamente bisogno. Il ddl Cirinnà non è che il punto di partenza. E bisogna partire bene.