Il governo dei Talebani esclude le lavoratrici delle organizzazioni, bloccando attività essenziali per la sopravvivenza della popolazione
Prima le proteste, ora gli addii. Sta crescendo il numero di organizzazioni non governative costrette a sospendere la propria attività in Afghanistan, in reazione all’ultima stretta dell’amministrazione talebana: il divieto alle donne afghane di lavorare nella organizzazioni non governative, confermato il 24 dicembre dal portavoce del ministro dell’Economia Abdulrahman Habib.
Le lavoratrici sono accusate di violare la regole sull’abbigliamento, soprattutto quando si tratta di indossare «correttamente» lo jihab: il velo islamico imposto per legge dai Taliban. La misura arriva a pochi giorni dall’esclusione delle studentesse dall’istruzione universitaria, un provvedimento che ha scatenato l’indignazione internazionale e boicottaggi interni agli stessi atenei.
Il governo potrà ritirare la licenza alle Ong che non si adeguano, applicando la norma alle circa 180 realtà sotto il cappello della Agency Coordinating Body for Afghan Relief and Development. L’Onu è esentata, sulla carta, ma diversi suoi programmi si svolgono in collaborazione con le organizzazione colpite dal provvedimento.
Un passo indietro è già stato annunciato da grosse realtà come Save the Children, Norwegian Refugee Council, Care International e l’International Rescue Committee, una delle presenze più corpose nel paese con uno staff di oltre 8mila persone. Le donne in organico più di 3mila. «Se non abbiamo il permesso di impiegare donne, non possiamo aiutare chi ha bisogno» ha comunicato l’Irc in una nota, ricalcando la denuncia già avanzata da altre organizzazioni.
Il baratro dell’economia afghana
L’Afghanistan si trova sempre più isolato dal ritorno al potere dei Talebani, culminato nella presa di Kabul del 15 agosto 2021. Il rovesciamento del governo democratico ha comportato sanzioni, il taglio di aiuti umanitari che incidevano su oltre il 40% del Pil e il congelamento degli asset della banca centrale afghana, esasperando una crisi pregressa alla nuova ascesa dei Taliban.
Il Pil si è contratto nel 2020 sotto la pandemia di Covid e si sarebbe dovuto rialzare a ritmi modesti nel 2021. Dopo il cambio di guardia al governo e la gelata internazionale, la Banca mondiale prospetta un tonfo aggregato del Pil fra il 30 e il 35% nel biennio 2021-2022.
La paralisi delle operazioni umanitarie può infliggere un colpo aggiuntivo, alle porte dell’inverno e di un anno che si annuncia ancora più tumultuoso per la tenuta del sistema. Le Nazioni unite stimano che i cittadini bisognosi di assistenza umanitaria lieviteranno dai 24,4 milioni del 2022 a 28,4 milioni nel 2023, l’equivalente del 70% della popolazione. L’Unicef avverte che 8mila bambini rischiavano la vita per insicurezza alimentare a dicembre, mentre il 97% della popolazione vive sulla soglia della povertà.
L’amministrazione talebana aveva cercato di accreditarsi nella comunità internazionale, smentendo i timori di una restaurazione del regime caduto due decenni prima. Le ultime decisioni vanno in direzione diversa, sbilanciando l’operato dell’esecutivo verso le sue chine più oltranziste. In un blitz di pochi giorni le autorità hanno prima bandito le donne dall’università, poi spiazzato il mondo della cooperazione con una stretta già condannata – fra gli altri – da Onu, Ue e Stati Uniti. «Questa decisione può essere devastante per il popolo afghano» ha commentato il segretario di Stato Usa, Antony Blinken, incassando l’invito di Kabul a «non intromettersi» nelle questioni domestiche del Paese
Funzionari Onu stanno cercando di mediare con le autorità afghane per la revoca del divieto, evidenziando che il lavoro delle Ong è «vitale» per l’assistenza internazionale. «Milioni di afghani hanno bisogno di assistenza» hanno dichiarato le Nazioni unite, riporta l’agenzia Associated Press, senza fornire dettagli del faccia a faccia. Al momento non ci sono notizie di dietrofront, né di una decisione di rottura dell’Onu con Kabul.
Le Ong: così impossibile operare, la situazione precipita
Le Ong che hanno annunciato il ritiro sono una minoranza, almeno per ora. Ma la preoccupazione che percorre il settore è riassunta nella nota diffusa da Save the Children, The Norwegian Refugee Council e Care International. «Senza il nostro staff femminile non possiamo effettivamente raggiungere bambini, donne e uomini in disperato bisogno di assistenza in Afghanistan» hanno comunicato le tre organizzazioni, sottolineando l’impatto – anche – economico della stretta. «Questa (misura, ndr) colpirà migliaia di posti di lavoro nel vivo di una enorme crisi economica» si legge nel comunicato. Il tasso di disoccupazione è già lievitato al 13,3% nel 2021 e potrebbe sfondare il 20% nei prossimi anni.
La stretta dei Talebani si ripercuote sia sulla quantità di donne al lavoro che sulla qualità dell’assistenza offerta quotidianamente in un paese stremato da crisi umanitaria e decenni di guerra. «Le donne sono quelle che avvicinano alle altre donne e ai bambini nelle situazioni di aiuto. Senza di loro come si farà? Si creano delle condizioni impossibili dal punto di vista operativo» sottolinea Marco Niada, co-fondatore di Argosha – Faraway Schools, una Ong che opera nel campo dell’educazione. Le organizzazioni, racconta, hanno «fatto acrobazie» per mantenere un presidio in un contesto che ha visto crollare tutti i ponti con la comunità internazionale.
Ora le autorità di Kabul rischiano di recidere anche uno degli ultimi appigli di assistenza esterna, scaricandone le conseguenze sulla popolazione. Lo stop già annunciato da Ong del peso di Save the Children «è segno di come la situazione stia precipitando nei rapporti fra governanti e resto del mondo» osserva Niada, con il rischio di effetti-boomerang sulle stesse autorità.
L’inasprirsi della crisi può surriscaldare le tensioni che si sono già manifestate nel paese, intensificandosi nel primo anno del (nuovo) potere talebano. Acled, un’organizzazione specializzata nella mappatura dei conflitti, ha registrato solo nel primo semestre 2022 almeno 1.500 casi di violenze politiche e proteste, con una climax di conflitti fra forze governative e anti-talebane. Se l’instabilità prosegue, scrive Acled in una nota, «saranno soprattutto i civili a sopportarne il peso».