I talebani sono ovunque e i banditi sono spariti. Ma in città il nuovo ordine riporta al Medioevo. «Non bisogna credere a nulla di ciò che dicono», dice un’assistente sociale
Gli stivali non hanno le stringhe aperte in alto, classici delle milizie in tutto il mondo. Ma sono stretti sopra la caviglia e raccolgono i pantaloni della mimetica. «Sono della Badri, la brigata talebana migliore. Attenti ai documenti. Nessuno parli inglese», dice Faruk, il mio autista hazara. Con noi a bordo c’è anche Mohammadot, che è tagiko. «Se mi trovano fanno come mio cugino, che ieri l’hanno mandato di forza a raccogliere i cadaveri dei soldati talebani caduti in alto sulle montagne del Panshir», dice preoccupato. E fa il suo solito movimento dei momenti difficili: rincagna la testa nel collo, abbassa il pacol sulla fronte e cerca di farsi invisibile. Perquisiscono l’auto davanti a noi con attenzione, fanno aprire il bagagliaio. Non aggressivi, ma duri, inflessibili. Tra loro parlano con i walkie talkie e si fanno segnali con le lampadine a raggi infrarossi. All’ultimo siamo fortunati. Sull’altra corsia un’auto non si ferma all’alt. Le corrono dietro togliendo le sicure ai mitra. Le altre guardie sono distratte, ci controllano appena. Non chiedono nulla.
Accadeva ieri sera a Kabul. Ci siamo arrivati passando dal Pakistan per il Khyber Pass e subito è apparsa evidente una considerazione, che ha trovato conferme a fine giornata nella capitale. Con la vittoria talebana vengono a cadere, almeno per ora, i problemi relativi agli attentati terroristici, che erano ormai all’ordine del giorno. E pare diminuisca anche il banditismo, che prima era a sua volta collegato alla destabilizzazione politica e sociale generata dalla guerriglia talebana a partire dal 2006. Questi quasi 200 chilometri di strada angusta, che passano per le gole di Sarobi, raggiungono la piana di Jalalabad e infine si inerpicano verso le montagne drammaticamente brulle che immettono nelle regioni tribali pachistane, negli ultimi anni erano diventati l’incubo di ogni autista. Rapine e sequestri erano all’ordine del giorno. Ora non più. «I talebani si stanno consolidando. Una settimana fa avevano solo cinque posti di blocco. Ora sono diventati più di venti. Non invidio i banditi che cadono nelle loro mani. Le esecuzioni sul posto stanno diventando frequenti. Risultato: si viaggia sicuri», diceva Mustafà, un camionista che viaggia regolarmente sulla tratta dei maggiori traffici della regione tra Karachi e Kabul. Nella capitale le conferme saltano agli occhi. Erano almeno cinque anni che Faruk evitava di viaggiare oltre un raggio di 20 o 30 chilometri dal centro. Adesso si dice pronto a percorrere i 600 chilometri che portano a Kandahar.
Ma questo della sicurezza è l’unico punto a favore dei talebani. «Tutto il resto è una catastrofe. L’economia scivola nel disastro. Non ci sono contanti, la gente cerca di non andare a lavorare, mancano amministratori per farla funzionare, gli uffici pubblici sono chiusi, il Paese intero è bloccato. Manca un nulla perché i talebani tornino a fare la guerra e mostrino il loro vero volto. Non bisogna credere a nulla di ciò che dicono», dice Shaima, un’assistente sociale 44enne originaria di Kunduz, nel Nord. Il suo è il dramma di tutti coloro che lavoravano nei progetti di miglioramento sociale sponsorizzati dalla coalizione occidentale. Lei era nella «Women for Afghan Women» (Waw), un’organizzazione non governativa finanziata dagli Stati Uniti mirata a creare case rifugio per le donne perseguitate, spesso picchiate in casa, minacciate dai mariti e dalle famiglie. «Noi ci occupavamo di 15 donne e 25 bambini. Ma quando i talebani sono arrivati siamo dovute fuggire.
Sono venuti a casa per arrestarmi. Era già avvenuto nel 2016, quando avevano conquistato Kunduz per la prima volta. Noi ci eravamo spostate a Mazar-i-Sharif, per poi finire qui a Kabul. Ora tutti i centri di accoglienza di questo tipo nel Paese sono stati chiusi, solo noi ne avevamo 14 con un migliaio di ospiti. Le donne sono andate tutte via, abbandonate a loro stesse», aggiunge. Lei con la famiglia ha trovato rifugio da lontani parenti qui in un villaggio alla periferia della capitale. Il marito due giorni fa è tornato a casa loro a Kunduz per recuperare qualche vestito. Restano nascosti: si occupavano delle donne e per giunta pagati dagli Usa, il peggio del peggio agli occhi dei nuovi padroni.
Si fa sera tarda quando torniamo per la strada. I ristoranti di Sharenau sono per lo più aperti. I proprietari da tempo di erano preparati con i generatori. Ma le luci colorate delle insegne non devono trarre in inganno. «A quest’ora d’estate le vie del centro sarebbero state gremite di gente. Ora non c’è quasi nessuno», dice Omar, che gestisce una specie di Wimpy locale famoso per le centrifughe di frutta e verdura. I suoi tavolini sono vuoti. Non si vede neppure una donna, neppure col burka. Il parco pubblico nelle vicinanze sino a pochi giorni fa era ancora invaso dagli accampamenti dei profughi fuggiti agli inizi di agosto di fronte all’avanzata talebana nel Nord. Molti sono tornati a casa. Qualche famiglia però bivacca ancora sotto gli alberi e manda i figli a mendicare sulla strada.