Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Franchi
Nel nostro Paese i rapporti di forza politici si misurano solo sui sondaggi, e ci si comincia a dimenticare che ci possono essere anche delle eccezioni alla regola, ma in generale è meglio se chi vince le elezioni governa, e chi le perde se ne sta all’opposizione, preparandosi, se ne è capace, per vincerle la volta successiva
Un’autorevole e affollata scuola di pensiero sostiene che, cogliendo al volo «l’occasione Draghi», centrodestra e centrosinistra (chiamiamoli per comodità ancora così) debbano e possano gettare le basi per tornare entro la fine della legislatura – sconfitta la pandemia, avviata la ripresa – al bipolarismo. Passando per un cambiamento in senso maggioritario di una legge elettorale che attualmente pencola assai dalla parte del proporzionale.
Non è scritto nelle stelle che il bipolarismo maggioritario sia una sorta di panacea universale. E, ripensando al nostro passato prossimo, magari ci si potrebbe anche chiedere come mai non sia mai venuto, in Italia, quel «tempo della maturità della democrazia dell’alternanza» che Giorgio Napolitano, correva l’anno 2006, invocava nel suo discorso di insediamento: se il nostro bipolarismo, sorto sull’ onda di Mani Pulite e dei referendum istituzionali, è rimasto tanto selvatico quanto inconcludente sino alla sua fine ingloriosa, qualche motivo d’ordine storico – politico dovrà pur esserci. Ma non è davvero il caso, con questi chiari di luna, di tornare a discussioni e polemiche vecchie un quarto di secolo.
L’aspirazione a ritrovare la via smarrita è più che legittima, specie in un Paese come il nostro dove ormai – caso più unico che raro in occidente – i rapporti di forza politici si misurano solo sui sondaggi, e ci si comincia a dimenticare che ci possono essere anche delle eccezioni alla regola, ma in generale è meglio se chi vince le elezioni governa, e chi le perde se ne sta all’opposizione, preparandosi, se ne è capace, per vincerle la volta successiva. Un conto, però, è sostenere che una cosa potrebbe, e dovrebbe, essere fatta. Un altro è stabilire se gli interessati, e stiamo parlando qui di partiti che bon gré mal gré sostengono tutti, a eccezione di Fratelli d’Italia e Sinistra italiana, il governo guidato da Mario Draghi, sono in grado di farla e, prima ancora, se ne hanno davvero voglia. E qui le cose cominciano a complicarsi.
Enrico Letta, appena chiamato alla guida del Pd, ha provveduto ad archiviare in un battibaleno il proporzionalismo pressoché integrale che il suo predecessore condivideva con i Cinque Stelle: le alleanze vanno dichiarate prima del voto, con tutto quello che ne deriva anche la legge elettorale. Le sue affermazioni hanno provocato un coro (a mezza bocca) di consensi, al quale però si è sottratto proprio il M5S. Si capisce facilmente il perché. Un movimento nato sull’onda di un poderoso Vaffa all’odioso regime, e di conseguenza cresciuto rifiutando in via di principio di allearsi con chicchessia, il proporzionalismo, seppur paradossale, lo ha iscritto nel suo Dna. E continua ad avercelo, nonostante in questa legislatura abbia governato in tutte le combinazioni possibili (con la Lega, con il Pd, in una maggioranza di emergenza e di unità nazionale) e la sua forza elettorale si sia drasticamente ridimensionata. Ma è vero pure che l’ingegneria genetica ha fatto passi da gigante, e non si può escludere che ormai si possa applicare anche alla politica. Giuseppe Conte avrebbe sicuramente preferito restare alla guida del governo, e seguire da lì, godendo del plusvalore politico assicuratogli dalla premiership in tempi di emergenza, la crescita di un’inedita formazione giallorossa di cui i suoi, ma pure Nicola Zingaretti, gli avevano già conferito la guida. Le cose sono andate diversamente, a Palazzo Chigi c’è Draghi, al Nazareno c’è Letta. Di conseguenza, Conte si è fatto volentieri delegare da Beppe Grillo il compito di dare una nuova politica e una nuova forma organizzativa ai Cinque Stelle: forse, adesso che l’anima originaria si è smarrita, proverà a darne loro una nuova nuova di zecca, adattabile al principio e alla pratica di un sistema maggioritario ma anche di coalizione. Forse. Ma forse no, anche perché della sua coalizione difficilmente sarebbe il candidato premier.
E a destra, cosa succede? Sembrava (anche a chi scrive, naturalmente) che Matteo Salvini in versione «di lotta e di governo» e Giorgia Meloni in versione leader dell’opposizione potessero dividersi abbastanza serenamente le parti in commedia, in attesa di ritrovarsi un po’ prima di elezioni che probabilmente vedranno la destra vincitrice. Ma le crescenti frizioni tra Lega e Fratelli d’Italia sono probabilmente l’inizio di una battaglia per la leadership, il cui esito, basta guardare i sondaggi, non sarebbe affatto scontato in partenza. Se così fosse, si potrebbe sempre, per carità, esortare i concorrenti a non mettere in pericolo, alzando in eccesso i toni della contesa, la prospettiva di un nuovo bipolarismo, stavolta civilizzato. Che gli interessati raccolgano e facciano proprie queste esortazioni, anche nel loro interesse, è, però, un altro discorso.
In conclusione. C’è grande disordine sotto il cielo, ma la situazione non è affatto eccellente. A differenza del nostro recente passato, non c’è un Silvio Berlusconi a fungere da spartiacque tra due Italie l’una contro l’altra armate. E questo, per chi ha a cuore il ripristino, ma su basi nuove, della democrazia dell’alternanza è un bene. Ma, e la cosa è meno ovvia di quanto possa sembrare, per metterla davvero in cantiere servono due campi, naturalmente plurali, naturalmente ancora in costruzione, dei quali però si intravedano quanto meno i confini, le idee forza comuni, i progetti, i programmi, e anche quello che unisce e quello che divide i loro leader potenziali. Di tutto questo non ci sono tracce visibili a sinistra, e quelle che parevano esserci a destra sono meno nitide di quanto si pensasse. Non è un buon viatico.