I governi formati sulla base di alleanze sono sottoposti a tensioni provocate da una dialettica interna che però da fisiologica sta diventando patologica
La storia politica italiana è scandita da governi di coalizione, che fisiologicamente sono sottoposti a tensioni provocate dalla dialettica interna. L’idea che le differenze possano essere superate con l’elaborazione di un programma comune, non regge. Non accade nemmeno in Germania, dove pure i partiti — prima di votare la fiducia al Cancelliere — impiegano a volte mesi per redigere un accordo minuzioso sui provvedimenti. Il motivo è che gli eventi si incaricano di mutare la realtà, imponendo spesso l’adozione di scelte non previste. Insomma, le liti tra forze alleate sono scontate. Per certi versi rappresentano un elemento di vitalità della democrazia, sono una palestra che allena alla ricerca della mediazione. Il fatto è che negli ultimi tre decenni la dialettica da fisiologica è diventata patologica.
La battaglia contro il nemico interno — magari per mancanza di avversari esterni — ha piegato il naturale confronto alla ferrea logica della competizione, trasformando le legislature in una campagna elettorale permanente. Anche in assenza di elezioni. Nel periodo del «bipolarismo muscolare» tra Polo e Ulivo, i veri antagonisti di Silvio Berlusconi sono stati Gianfranco Fini, Umberto Bossi e Pierferdinando Casini, così come Massimo D’Alema, Fausto Bertinotti e Clemente Mastella lo sono stati per Romano Prodi. È dall’interno che i governi del Cavaliere e del Professore hanno subito il maggiore processo di logoramento.
Questi meccanismi sono diventati una vera e propria forma di costume nel Palazzo, che mina la credibilità della politica agli occhi dell’opinione pubblica. Nonostante ciò, nella cosiddetta Terza Repubblica si continua a riproporre lo stesso stilema del passato. Il bradisismo permanente nelle coalizioni di governo si manifesta anche adesso. Non è in discussione il confronto. Tanto meno può passare la tesi che non si debba disturbare il manovratore. Il punto è che — oltre un certo limite — i cittadini non riescono a capire dove finiscano le legittime istanze e dove inizino le faide, che rendono difficoltosa la collaborazione, alimentano le diffidenze, consumano credibilità. E diventano un alibi per chi deve assumersi la responsabilità della mediazione e chi ambisce ad ottenere un risultato dalla mediazione.
L’attuale governo è frutto del responso elettorale, che chiude la parentesi del gabinetto tecnico ma ne prende in carico le questioni rimaste aperte. È su questi presupposti che il centrodestra è arrivato a palazzo Chigi. Ritenere che le elezioni abbiano cancellato i problemi del Paese e perciò sia mutata l’agenda delle «cose che si devono fare e che vanno fatte», significherebbe non fare i conti con il principio di realtà. E infatti Giorgia Meloni si è mossa di conseguenza: ha ribadito l’impegno italiano al fianco degli alleati occidentali nella guerra in Ucraina; ha varato una Finanziaria su cui l’Europa non ha espresso obiezioni; sta usando il bisturi sul Reddito di cittadinanza e sul Superbonus, che Mario Draghi non aveva potuto affondare perché una parte della sua larga maggioranza glielo aveva impedito.
Non è chiaro allora se le tensioni nella coalizione sono originate dalla necessità degli alleati di essere visibili per non essere fagocitati da FdI . O se le ragioni dello scontro sono più profonde. Perché se la questione si limita alla richiesta di una maggiore collegialità, è la premier a doversene fare carico. Altrimenti il problema assume altre dimensioni. Fermare la moneta finta dei crediti d’imposta per le ristrutturazioni — che rischia di mandare all’aria i conti pubblici — era un’urgenza per palazzo Chigi. Il governo ha potuto farlo perché si sente politicamente forte e ha dovuto farlo perché si sente finanziariamente debole. Dentro questo quadro, un compromesso nella maggioranza è possibile. A patto che tutti concordino sul fatto che l’era del «gratuitamente» è finita.
È solo un esempio, l’ultimo in ordine di tempo nella sequenza di scontri su provvedimenti che gli eventi hanno imposto in corso d’opera. Sta nel novero della dialettica fisiologica. Ed è un modo per sfuggire alla dialettica patologica, alle steriche polemiche verbali che giorno dopo giorno da decenni vengono usate come banderillas nell’arena del Palazzo.