20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Massimo Gaggi

Si torna dalle manifestazioni mondiali di piazza con la rabbia di Greta che accusa i governi di averle rubato sogni e futuro, ma anche consapevoli che lo scarso attivismo della politica non può essere un alibi per il cittadino


Troppo poco, troppo tardi. Sono in tanti a pensare che tanti sforzi — proteste planetarie, conferenze Onu, impegni dei governi — serviranno a poco. Gli obiettivi del Patto di Parigi di 4 anni fa — contenere l’aumento delle temperature entro 1,5-2 gradi — non verranno rispettati: la Terra si è già scaldata mediamente di 1,1 gradi. Le emissioni di CO2 continueranno a crescere fino al 2030, portando il riscaldamento, da qui al 2100, a 3-3,4 gradi. Un mondo invivibile secondo gli scienziati. I ritardi sono, in effetti, enormi, le promesse dei governi sono rimaste spesso lettera morta e quello di invertire la rotta è un compito titanico: per riuscirci servirebbero rivoluzioni — dalla rinuncia totale alle carni bovine al drastico taglio dei voli — che avrebbero pesanti conseguenze su turismo, agricoltura, commerci, migrazioni. Molti di noi non sono disposti ad accettarle.
Ma il Climate Summit di ieri, se non una vera svolta, è stato di certo un momento di discontinuità. Il «come osate?» di Greta Thunberg può anche essere giudicato un grido velleitario e António Guterres, il segretario generale Onu che ha voluto il vertice e sferza i Paesi inadempienti, non ha poteri operativi. E tuttavia la pressione crescente dei giovani di tutto il mondo, i vincoli di Parigi che cominciano a diventare stringenti, i primi impegni dei governi e delle grandi imprese, dicono che qualcosa stavolta sta cambiando davvero. Cambia l’atteggiamento dei politici, esposti alla rabbia popolare e ormai consapevoli dell’enorme costo sociale di mutamenti climatici che producono desertificazioni e inondazioni. Cambia quello delle imprese: fino a ieri consideravano la tutela dell’ambiente un’iniziativa filantropica, pura beneficenza, mentre ora si rendono conto non solo che quelle della protezione dell’ecosistema e della transizione energetica verso fonti alternative sono grandi opportunità di business, ma anche che l’inazione porta a collassi delle comunità e, quindi, dei mercati.
Cresce, forse un po’ a macchia di leopardo, anche la nostra consapevolezza individuale: se un tempo pensavamo che tutto dipendesse dai governi, ora ci stiamo abituando all’idea che ognuno di noi può fare qualcosa per contenere i consumi più nocivi per l’ambiente o per contribuire a varie forme di smaltimento e riciclaggio.
Insomma, si torna dalle manifestazioni mondiali di piazza con la rabbia di Greta che accusa i governi di averle rubato sogni e futuro, ma anche consapevoli che lo scarso attivismo della politica non può essere un alibi per il cittadino. Guterres, pur conscio dei numeri impietosi degli scienziati, dice che il suo stato d’animo è passato dal pessimismo all’ottimismo proprio per la pressione dei giovani sui governi. Il leader dell’Onu ha invitato al Summit solo 66 Paesi considerati i più volenterosi (Italia compresa, impegnata più di altri nella transizione energetica verso l’elettrico soprattutto con Enel e nell’economia circolare con imprese e banche come Eni e Intesa). È una scelta che sta dando frutti sia in termini di impegni aggiuntivi dei Paesi incalzati dall’Onu — come la Germania col piano «verde» da 100 miliardi di euro elaborato proprio alla vigilia del vertice di New York — sia per l’effetto delle sferzate inferte ai governi inadempienti: ad esempio, col leader nipponico Shinzo Abe non invitato perché il suo Paese continua a puntare sul carbone, Tokio ha mandato al summit Shinjiro Koizumi, giovane e popolarissimo ministro dell’Ambiente, figlio di un ex premier, che ha promesso un piano di azioni straordinarie per portare il Giappone in prima fila nella lotta contro il global warming.
Promesse credibili? Gli impegni, anche quando sinceri e seguiti da fatti concreti, basteranno ad arrestare il deterioramento dell’atmosfera? È difficile essere ottimisti: anche perché alcuni danni – scioglimento dei ghiacciai montani e dei ghiacci polari, innalzamento dei mari con la conseguente moltiplicazione delle inondazioni – sono ormai irreversibili. Basti pensare alla crescita media del livello degli oceani, passata dai 3 millimetri l’anno del periodo 1997-2006 ai 5 millimetri medi degli ultimi cinque anni. Pesa, poi, anche il disimpegno degli Stati Uniti, con Donald Trump che ha apertamente boicottato il Summit anche se poi, con una delle sue classiche mosse a sorpresa, si è presentato all’incontro per una presenza silente durata poche decine di minuti. Difficile dire quanto saranno efficaci i nuovi piani d’intervento dei governi e valutare il peso del patchwork di misure per l’ambiente varate da grandi multinazionali come Ikea, Unilever, Danone o giganti del software e della farmaceutica come Salesforce e AstraZeneca. Per non parlare delle conseguenze negative involontarie di certe iniziative (il caso, anni fa, degli elevati costi ambientali per la produzione di combustibili vegetali) o delle contraddizioni che possono facilmente emergere in situazioni così complesse, a partire dall’osservazione più banale: l’enorme quantità di anidride carbonica emessa dagli aerei che portano in giro per il mondo i profeti della decarbonizzazione. Ma qualcosa sta cambiando in positivo. Anche nelle nostre piccole cose come la routine quotidiana di chi ha capito che deve togliere i residui di cibo da cartoni e plastiche alimentari prima di smaltirle, altrimenti non saranno riciclabili.

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