Negli altri grandi Paesi europei i maggiori partiti fanno fronte comune. Proporre di cambiare politica estera a guerra in corso può avere infatti il solo risultato di indebolire la posizione dell’Italia e di confermare un antico pregiudizio sulla nostra inaffidabilità nelle crisi
«Se candidi un tuo fedelissimo, mentre stai proponendo di staccare l’Europa dagli Usa e di smettere di mandare armi all’Ucraina, nello stesso giorno in cui il presidente del Consiglio riceve la premier finlandese che vuole entrare nella Nato e la Russia espelle 24 diplomatici italiani, è difficile che riesci a eleggere il presidente della Commissione esteri del Senato».
Questo ragionamento, di fonte Cinquestelle, è rivolto a Giuseppe Conte, e gli imputa la responsabilità della sconfitta del suo candidato, bocciato a voto segreto e non gradito nemmeno a tutti i senatori pentastellati. Ma se vogliamo evitare di fare come lo sciocco del celebre detto, invece di guardare il dito, e cioè gli affari interni dei Cinquestelle, dobbiamo chiederci che effetto possa avere quello che abbiamo già definito il «fattore Z» sulla tenuta del governo e di conseguenza sulla credibilità dell’Italia, mentre è alle prese con la più grave crisi internazionale dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
Il partito di maggioranza relativa, che esprime il ministro degli Esteri, sta infatti chiedendo da giorni al governo di cambiare linea sulla guerra russa all’Ucraina.
Sebbene questa linea sia stata concordata in sede europea con gli alleati e approvata nel nostro Parlamento con un voto quasi unanime. Ma abbiamo anche la terza forza parlamentare, la Lega, che prova a nascondere il putinismo acritico e muscolare del passato dietro un pacifismo radicale contrario all’uso delle armi, alquanto incongruo in chi ha inventato lo slogan «la difesa è sempre legittima». E poi abbiamo i ritorni di fiamma di Silvio Berlusconi per l’ex amico col colbacco, e le amnesie di un leader un tempo così «amerikano» da seguire Bush nella guerra all’Iraq e oggi così critico degli Usa e della Nato da provocare la reazione sconcertata di una ministra del suo stesso partito, Maria Stella Gelmini.
Non è una situazione facile. Soprattutto è unica. Negli altri grandi Paesi europei i maggiori partiti fanno fronte comune sulla politica estera, e non solo perché la causa della difesa dell’Ucraina è palesemente giusta, ma anche in ossequio al motto per cui «right or wrong, my country»: nelle tempeste internazionali si sta con il proprio Paese. È anche per questo, del resto, che da noi la principale forza di opposizione, Fratelli d’Italia, sostiene il governo sull’Ucraina.
Proporre di cambiare politica estera a guerra in corso, sulla base dell’affermazione che le condizioni sono cambiate (Quali? La Russia ha smesso di bombardare e conquistare città e villaggi? Ha dichiarato un cessate il fuoco? Ha riaperto il tavolo negoziale con l’Ucraina?) può avere infatti il solo risultato di indebolire la posizione dell’Italia e di confermare un antico pregiudizio sulla nostra inaffidabilità nelle crisi. Richiederebbe poi, da parte di forze politiche che sono al governo e ambiscono a tornarci dopo le elezioni, l’onere di indicare quali alleanze internazionali potrebbero sostituire quelle oggi contestate. Con chi la nuova Italia di Conte e Salvini dovrebbe far fronte comune? Con la Turchia, nel contrastare la scelta sovrana di Finlandia e Svezia di aderire alla Nato (strano destino per i nostri sedicenti «sovranisti»)? Con la neutrale Austria, uscendo dalla Nato proprio mentre ci entrano anche le due nazioni più neutraliste d’Europa? Con la Cina, interessata esclusivamente a indebolire gli Stati Uniti? Oppure i nostri riluttanti leader vogliono solo che restiamo in Europa e nella Nato ma come membri non attendibili, poco credibili, in definitiva minori, tipo Ungheria insomma?
Senza contare che tutta l’agitazione di Conte potrebbe non ottenere gli effetti desiderati — un cambio di politica estera — ma solo gravi effetti collaterali. A occhio non ci sembra che Mario Draghi sia il tipo di presidente del Consiglio che su pressione di una componente della maggioranza rinuncia a fare ciò che è stato deciso di fare e a cui si è impegnato in tutte le sedi internazionali. Dunque, a meno di non volere una crisi di governo in piena guerra all’Ucraina, regalando così a Putin la prima vittoria di questi due mesi, e producendo però anche un’inevitabile spaccatura nel proprio stesso partito, mettersi sul piano inclinato della rincorsa al consenso è pericoloso e può finire male.
Alla presidenza della Commissione esteri del Senato è stata alla fine eletta Stefania Craxi. Qualunque giudizio si possa avere della figura storica del padre, è difficile negare che da presidente del Consiglio seppe combinare un’assoluta lealtà all’Alleanza Atlantica (fu protagonista nella decisione europea di ospitare gli euromissili, che sfiancò l’Urss) con un’assoluta difesa dell’indipendenza nazionale (fu l’uomo che a Sigonella respinse le pretese degli americani). Una singolare coincidenza della storia, da meditare per gli aspiranti statisti dei nostri giorni.