22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Antonio Taino

L’analisi Freedom on the Net, effettuata dall’organizzazione che compie da decenni un monitoraggio sull’andamento della libertà nel mondo, calcola che almeno 13 governi abbiano deciso la chiusura di Internet in intere aree dei loro Paesi durante la pandemia


L’informazione, durante la pandemia, è stata in alcuni momenti confusa, ridondante, ansiogena. È però stata decisiva per limitare il numero dei contagi e, soprattutto, dei malati e dei morti. In particolare, quella via web ha consentito a milioni di persone, probabilmente miliardi, di conoscere i rischi della Covid-19 e di attrezzarsi. E ha permesso ai governi più saggi di impostare politiche sanitarie di difesa. Imporre la censura di questi tempi, dunque, è ancora peggio che imporla in situazioni normali: moltiplica le vittime. Ciò nonostante, almeno 28 Paesi su 65 studiati da Freedom House hanno in qualche modo censurato i siti web per impedire di parlare liberamente del virus e della sua diffusione. L’analisi Freedom on the Net, effettuata dall’organizzazione che compie da decenni un monitoraggio sull’andamento della libertà nel mondo, calcola che almeno 13 governi abbiano deciso la chiusura di Internet in intere aree dei loro Paesi durante la pandemia: tra questi, l’Etiopia, il Myanmar, il Bangladesh e il Venezuela. E — ricorda lo studio — l’accesso a Internet«è un diritto umano internazionalmente riconosciuto». In 20 Paesi sono state introdotte nuove leggi o altre esistenti sono state rafforzate per limitare la libertà di parola e in almeno 40 Nazioni si sono registrate repressioni contro giornalisti, attivisti e cittadini comuni perché hanno espresso opinioni legate al coronavirus: Cina, Turchia, Tailandia, Filippine, Zimbabwe, Cambogia tra le altre. In 45 Paesi si è proceduto ad arresti e fermi per reati di opinioni espresse sulla pandemia: per esempio in India, in Egitto e persino in Ungheria.
«In nessun luogo — dice Freedom House — la censura è stata più sofisticata e sistematica che in Cina». Nel Paese guidato da Xi Jinping, i «moderatori» dell’attività sul web hanno individuato duemila parole chiave sulle piattaforme WeChat e YY che avrebbero potuto rivelare opposizioni al Partito Comunista o condurre a critiche sulla gestione della pandemia. E su questa base è stata organizzata la repressione del dissenso e delle critiche. Il balzo della censura in corso arriva dopo 14 anni consecutivi, dal 2006 al 2019, di riduzione di declino delle libertà democratiche nel mondo, secondo un indice realizzato da Freedom House. Il 2020 segnerà un salto ulteriore verso l’autoritarismo: pessimo anche da questo punto di vista.

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