16 Settembre 2024

Nessun Paese europeo si è schierato così nettamente con Israele come la Germania. Eppure, in nessun Paese gli ebrei si sono sentiti così a disagio e così smarriti

Dietro la Porta di Brandeburgo sorge il memoriale della Shoah. Colpisce, per chi ci passa queste sere, vedere come il perimetro delle tombe di cemento,
la foresta del ricordo degli ebrei uccisi dal nazismo, sia presidiata da poliziotti con cani al guinzaglio. Sulle case di Neukölln, nel quartiere turco di Berlino, sono comparse le stelle di Davide come negli anni Trenta. E i genitori ebrei hanno raccontato di non aver mandato i figli a scuola o all’asilo, dopo l’eccidio di Hamas del 7 ottobre, perché avevano paura.
Nessun Paese europeo si è schierato così nettamente con Israele come la Germania. Olaf Scholz non ha solo detto in Parlamento che «la ragione di Stato della Germania è stare al fianco di Israele», per la responsabilità storica che la sua Nazione ha verso gli ebrei. Ma, cancellando i tentennamenti sull’Ucraina, ha anche aperto alla consegna di armi, autorizzando l’uso di due droni da combattimento e accelerando le procedure per vendere munizioni. Così veloci sono state queste decisioni del cancelliere tedesco che in Europa non l’ha ancora seguito nessuno.
Eppure, in nessun Paese gli ebrei si sono sentiti così a disagio e così smarriti. Se la Porta di Brandeburgo, la prima notte dopo il massacro, si era subito accesa dei colori bianco-blu della bandiera-israeliana, ci sono volute quasi due settimane perché una folla sfilasse lì davanti ripetendo nie wieder, mai più. Non serve dirlo, non in questo Paese, avrà probabilmente pensato la maggioranza. O forse siamo tutti sfiniti dalle guerre di questa epoca instabile o da un orrore troppo grande per manifestare e organizzare la nostra compassione. Però stavolta quel che è successo a Berlino ha spiazzato tutti. A Neukölln un mini-quartiere si è ribattezzato «Gaza City». Qui, dopo l’attacco terroristico di Hamas, alcuni ragazzi sono scesi in strada a offrire pasticcini ai passanti. Ogni notte si scatena la guerriglia urbana. E perfino la Sonnenallee, il «viale del sole» che ha il miglior hummus della capitale, che è la cartolina di una città aperta e multietnica come Berlino, venerdì ha chiuso per uno sciopero pro-Gaza: quasi tutti i negozianti si sono adeguati pur di non sembrare filo-ebrei o di avere problemi con i vicini.
Con orrore e con raccapriccio la Germania ha dovuto prendere atto di avere in sé un’ampia minoranza antisemita. Non stiamo parlando dell’estrema destra, ormai secondo partito nazionale, votata anche nella ricca e placida Baviera. Ha dovuto rendersi conto che anche molti rifugiati portano con sé una cultura e un’ideologia anti-israeliana. «L’odio verso gli ebrei è diventato mainstream tra i giovani e i giovani adulti in alcune comunità arabe», ha detto Josef Schuster, il presidente della comunità ebraiche. Non sono numeri piccoli: la Germania ha sei milioni di musulmani, due dei quali arrivati dal 2015, l’anno della grande apertura. Dopo gli Stati Uniti — con 300 mila arrivi all’anno e un’ampia comunità di rifugiati ucraini — oggi è il Paese che attira più immigrati al mondo. Henry Kissinger, ebreo, fuggito dalla Germania nazista nel 1938 ancora bambino, ritiene un grave errore aver lasciato entrare «un così ampio numero di persone di cultura, religione e concetti completamente diversi perché creano dei gruppi di pressione».
Una brutale battuta, molto celebre in Germania, dice: «I tedeschi non perdoneranno mai Auschwitz agli ebrei». È attribuita allo psicanalista viennese-israeliano Zvi Rix, e vuol dire che con lo loro mera esistenza gli ebrei ricordano ai tedeschi le colpe della loro Nazione, e per questo ne sono risentiti. Però non dimentichiamo quanta fatica, quanto dolore abbia richiesto lo scavo nel proprio passato a questo popolo. Non dimentichiamo con quale feroce lucidità i figli si siano rivoltati contro i padri nazisti, arrivando a chiedere loro spiegazione di tanta abiezione e di tanta complicità. Per non ripeterlo mai più.
E ora, che fare se questo sentimento collettivo alla base della vita pubblica tedesca, non è più condiviso? Se ampie masse di neo-arrivati — ma anche dei ragazzi della next generation, anti-colonialisti e anti-Israele — non solo lo ignorano, ma non hanno nessun interesse a conoscerlo? La Germania, se ne sarà capace, ha di fronte a sé un’epoca di profonda revisione. Il buonismo merkeliano è finito. L’apertura umanitaria ai migranti, tra tutte le politiche della cancelliera quella meno «tattica», quella in cui più si è riconosciuta, perché sorretta da un ethos protestante che pone la difesa della vita umana come valore assoluto, è l’ultimo pilastro di un regno che sarà sepolto nei prossimi mesi. Accanto all’addio al nucleare e alla dipendenza dalla Russia. Ma non si tratta dell’eredità di Angela Merkel, che in pochi anni la Germania si è lasciata alle spalle. Si tratterà per la Germania — e forse è uno specchio in cui possiamo un po’ riconoscerci — di capire come preservare l’anima di un Paese, e di inglobare chi vi si affaccia.

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