21 Novembre 2024
Ambiente Terra

Ambiente Terra

I tratti faziosi che sta assumendo da noi il dibattito sono più che sgradevoli: sono pericolosi

«Ma dai, che sarà mai? In estate ha sempre fatto caldo». Gli «indifferenti», oggi che c’è la destra al governo, vanno di moda. Corrispondono al tipo del polemista disincantato, cinico, conoscitore del mondo e della storia, che finalmente osa svelare gli inganni dell’ambientalismo e rompere la cappa di piombo dell’egemonia di sinistra. Ma gli «apocalittici», dal canto loro, sono numerosi, agguerriti, ostinati, e ben determinati a prendersi sul clima una rivincita nei confronti delle «destre» (le declinano sempre al plurale), così ottuse, ignoranti e reazionarie che non si capisce perché la gente le voti: «Il Pianeta brucia — gridano — oppure sta per essere sommerso dal diluvio universale. E voi non fate niente».
Non è davvero una novità che un cataclisma accenda una discussione filosofica. Il terremoto di Lisbona diventò per Voltaire l’occasione per condannare l’ottimismo di Leibniz, secondo il quale viviamo nel migliore dei mondi possibili. Ma i tratti «faziosi» che, nella migliore tradizione italiana, sta assumendo da noi il dibattito sul clima sono più che sgradevoli: sono pericolosi. L’estremismo sembra essere diventato la malattia senile del nostro opinionismo. Lo dimostra innanzitutto il lessico roboante, insultante, denigratorio, con cui le due fazioni si combattono. C’è per esempio una parola, «negazionismo», che è servita in origine a stigmatizzare chi nega la realtà storica dell’Olocausto, la massima tragedia dell’umanità. Ebbene ormai quella stessa terribile accusa, che in molti Paesi europei configura addirittura un reato penale, è diventata moneta corrente, spesso a parti invertite, nel dibattito sui vaccini o sul clima, temi sui quali il dubbio è invece legittimo. Dall’altra parte, chi lancia un allarme più che sostenuto dagli studi scientifici, e dalla realtà a tutti evidente del susseguirsi di eventi meteorologici estremi, è un «gretino», che fa rima con cretino: un «catastrofista», uno che non ha capito che la Terra esiste da quattro miliardi di anni, che i ghiacciai si sono formati e sciolti innumerevoli volte, insomma che non sta accadendo niente di importante.
Qual è il rischio di questa forma di dibattito pubblico? L’inconcludenza. Discutiamo del «noumeno», della cosa in sé, inaccessibile, e perdiamo interesse nel «fenomeno», cioè nella cosa come si rivela a noi esseri umani. Educhiamo così un’opinione pubblica che non crede più a niente e a nessuno perché riceve costanti prove del fatto che tutto viene manipolato per fini di parte o per interesse. Il risultato è un ulteriore screditamento della politica democratica, cioè della capacità dell’azione pubblica di affrontare e risolvere problemi.
Per gli «apocalittici» bisogna agire oggi, subito, adesso, prima che il mondo finisca. Ma se il mondo sta davvero per finire, chi arriverebbe fino in fondo a questo articolo, a qualsiasi discorso sul «climate change»? A che servirebbero? Come possiamo credere alla scienza che ci annuncia l’Armageddon, dimenticando che è stato proprio il progresso scientifico a portarci qui? Per gli «indifferenti», invece, qualsiasi cosa facciamo è irrilevante, non fa per l’appunto alcuna differenza, perché anche un milione di auto elettriche all’anno non sarebbero che un minuscolo cerottino sul corpo della Geosfera.
Entrambi gli estremismi ci inducono così a pensare che non possiamo farci niente. E certe volte viene il sospetto che proprio a questo mirino, per rafforzare ognuno dal suo versante gli effetti di quella «tirannia dell’emergenza» di cui parla in un recente pamphlet Andrea Venanzoni, e affidare alle élite politiche o agli interessi costituiti il potere così sottratto alla democrazia, cioè al dibattito informato dei cittadini.
Mentre invece la grande questione del «riscaldamento globale» (già il termine non è neutro, gli «indifferenti» lo chiamano più anodinamente «cambiamento climatico»), richiede al contrario uno sforzo razionale di grande portata. Si tratta di compiere una delle operazioni più difficili per una comunità, e cioè fondare un’etica, trovare ciò che è giusto per tutti. Mettere a confronto «egoismo razionale» e «benevolenza universale», secondo la massima del filosofo Sidgwick per cui «ciascuno è moralmente tenuto a considerare il bene di qualsiasi altro individuo allo stesso modo in cui considera il proprio bene personale». Una forma di utilitarismo moderno, consapevole, in cui «la condotta giusta è quella da cui ci si attende che produca la massima felicità per il maggior numero» (Piergiorgio Donatelli).
Tutto ciò ci obbliga a contrastare la partigianeria. Lo sfruttamento politico-mediatico dell’ultima emergenza conferma nell’opinione pubblica i suoi già non pochi pregiudizi, mentre ciò che serve è proprio provare ad abbatterli, con la razionalità di un discorso pubblico informato, onesto e maturo. Compito delle classi dirigenti, se ancora ne sono rimaste in questo Paese, è aiutare l’identificazione del bene comune; che in questo caso consiste in quel poco che noi, esseri viventi di passaggio su questo piccolo angolo di Terra che è l’Europa, possiamo umilmente fare per lasciarla ai nostri figli non dico migliore, ma almeno non troppo peggiore di come i nostri genitori l’hanno lasciata a noi.

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