C’è sempre più bisogno di Europa. È forse l’istituzione più invocata, richiesta, in ogni occasione. Che si tratti di reagire a un’aggressione come quella russa all’Ucraina, o intervenire nelle vicende israeliane seguite all’attacco terroristico di Hamas in Palestina. Dovrebbe stabilire rapporti proficui con la Cina, delineare politiche industriali, di difesa comune, avere un peso sulle migrazioni e sui confini. Contenere il potere e le azioni di dittatori e regimi. Fare sì che lo strapotere dei colossi tecnologici ed economici non leda i diritti dei cittadini e quelli della concorrenza. E occuparsi di cambiamento climatico. Ma c’è un paradosso evidente. A essere i più vocianti sono i governi che fanno parte dell’Europa stessa. Sono i vertici dei Paesi membri che sono gli stessi che, mentre incalzano l’Europa, fanno fatica a concedere bricioli di sovranità affinché l’Ue possa fare quello che chiedono. Per quanto tempo ancora questo paradosso continuerà a caratterizzare il Continente? Mario Draghi ha lanciato l’allarme dalle colonne del Financial Times lo scorso 8 novembre. L’aggregato Unione sta perdendo competitività. La competizione è ormai tra aree del mondo che si chiamano America, Cina e, contrariamente a quanto vuole un certo mainstream, anche l’Africa si prepara a essere luogo di sviluppo e di forte competitività grazie alla tecnologia. Ma ogni volta che l’Europa ha posto l’asticella più in alto, nel campo dell’innovazione, della tecnologia, della sostenibilità ambientale, economica e sociale, si è preferito voltare lo sguardo all’indietro. Decenni di un pragmatismo d’accatto hanno fatto scemare nei decisori politici la capacità di agganciare le loro proposte ai grandi flussi della storia. Li ha fatti accontentare di supportare le presunte richieste dei propri cittadini, restringendo l’orizzonte all’interno degli Stati. All’integrazione si sono preferiti i distinguo. Utili nel breve periodo, forse. Ma che possono rivelarsi una condanna all’irrilevanza nel futuro.