16 Settembre 2024

Siamo il paese più «invecchiato», con la quota di ultrasessantacinquenni più alta in occidente. Siamo obbligati a valorizzare i giovani e investire su di loro

In tutto il mondo c’è fame di talenti. Dagli imprenditori agli scienziati, dagli artigiani agli startupper, a chi vuole dare il meglio di sé per le cose pubbliche e per la cura degli altri. La concorrenza tra paesi è feroce. E ancora di più lo è per l’Italia, le sue imprese e le sue istituzioni, a causa di due problemi che si intersecano e moltiplicano gli ostacoli. Il primo è demografico: stiamo lasciando prosciugare il bacino dei potenziali talenti. Il secondo ha a che fare con l’organizzazione del paese, dell’istruzione e del sistema produttivo: la già scarsa acqua del bacino dei talenti la stiamo disperdendo. Per poter crescere ancora è necessario aggredire, simultaneamente, entrambe le questioni.
La crisi demografica italiana è nota: il numero dei giovani sta calando velocemente. Un esempio: in Italia poco meno di 600 mila ragazzi compiranno 18 anni nel 2023, il 7% dei quali senza cittadinanza italiana. Quasi il 50% in più dei nati nel 2022, meno di 400 mila, potenziali diciottenni nel 2040. Siamo il paese più «invecchiato», con la quota di ultrasessantacinquenni più alta in occidente. La demografia ci obbliga ad attrarre giovani «cervelli» dall’estero, con politiche esplicite per portare nuova acqua al bacino. Non siamo i soli, ovviamente: il Canada ha l’obiettivo di concedere visti per quasi 500 mila nuovi immigrati all’anno nei prossimi anni. Un numero superiore alle nostre nascite, in un paese con venti milioni di abitanti in meno dell’Italia e una situazione demografica decisamente meno problematica. Dobbiamo anche frenare la fuga dei nostri cervelli, diventando più attraenti per chi cresce in Italia e pensa invece sia meglio sbocciare all’estero. Per trattenere e attrarre vale la stessa ricetta: una società amichevole, inclusiva e rispettosa delle diversità, cosmopolita, che valorizzi chi vuole fare qualcosa di buono e non ostracizzi l’imprenditorialità e il rischio. I nuovi talenti aspirano a combinare il successo lavorativo con la vita personale, e quando avranno figli vorranno un ambiente amichevole nei confronti delle famiglie, per far a loro volta crescere le generazioni successive. Le imprese e il settore pubblico devono quindi fare la loro parte creando percorsi di carriera trasparenti e condizioni che permettano di conciliare la vita lavorativa con quella personale.
Aumentare la numerosità del pool di potenziali talenti non è però sufficiente. Occorre anche agire su chi c’è già oggi, aumentando il livello di istruzione, le conoscenze, le capacità e le aspirazioni dell’intera popolazione. Cominciando a scuola, dove non possiamo permetterci di lasciare indietro nessuno e di essere il 16% sotto la media dell’Unione Europea per percentuale di diplomati. Avendo già poche ragazze e pochi ragazzi, dobbiamo puntare sulla qualità aumentando gli investimenti scolastici pro capite, come ha fatto ad esempio la Corea del Sud quando è calato sensibilmente il numero di bambini. Avendo il coraggio di cambiare: non possiamo più permetterci di mantenere un sistema scolastico essenzialmente costruito per fare selezione. D’altronde siamo il paese di Don Milani e di Maria Montessori, il cui impatto sul sistema è stato finora troppo limitato: implementiamo politiche scolastiche di inclusione a livello generalizzato e di grande portata, premiando e responsabilizzando gli insegnanti. L’iniziativa recente del Ministro Valditara di creare un sistema incentivante di docenti tutor, al pomeriggio, per gli studenti in difficoltà, va nella giusta direzione. Non basterà: serve delineare obiettivi ancora più ambiziosi, per portare tutti gli studenti almeno a un titolo di scuola secondaria superiore, promuovendo così la formazione dei nostri talenti nelle loro diverse espressioni.
Gran parte della popolazione italiana, però, è fuori dal sistema scolastico. E, pur in un paese che ha oggi un numero record di occupati, esistono sacche preoccupanti, da record negativo, di sotto-occupazione o di non occupazione. Pensiamo ai NEET, giovani che non studiano e non lavorano, per cui l’Italia ha il triste primato nell’Unione Europea, con il 25% delle ragazze e il 21% dei ragazzi tra 15 e 29 anni che sono «fuori gioco». Pensiamo poi alle donne: siamo il paese UE con il più basso tasso di occupazione femminile: con il 51,7% siamo stati superati recentemente anche dalla Grecia. Per i NEET, come per le donne è necessario pensare a nuove possibilità, a politiche di formazione e di welfare innovative volte a dare una chance di inserimento professionale. Le politiche devono essere declinate sul territorio, con un occhio particolare al mezzogiorno, ma anche sfruttando le opportunità del digitale.
Il nostro paese ha una scelta obbligata per crescere nei prossimi anni: dare priorità assoluta alla coltivazione e all’attrazione del talento, facendo anche emergere quello che rimane nascosto oggi in Italia. Forse troveremo così anche soluzioni innovative per l’invecchiamento della popolazione, che potremo vendere al resto del mondo.

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