20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Enzo Moavero Milanesi

In Europa, aprile è un mese importante: gli Stati membri dell’Unione Europea adottano due documenti: il «Programma di stabilità e di convergenza», che illustra le basi dei loro conti pubblici a medio termine; e il «Programma nazionale di riforme», che indica le misure strutturali per favorire crescita economica e occupazione. In Italia, compongono il Documento di economia e finanza (Def). Nel predisporli, i governi tengono conto delle analisi previsionali della Commissione europea e delle linee guida del Consiglio europeo. I documenti verranno valutati nelle sedi Ue, affinché il Consiglio europeo deliberi, a giugno, «specifiche raccomandazioni» per i vari Paesi. Queste condizionano ogni governo, anche nel redigere l’annuale legge di Bilancio, destinata a ulteriori esami a livello di Unione, prima di essere votata in ciascun Parlamento nazionale. La finalità dell’articolato sistema è di permettere agli Stati Ue di verificare le rispettive politiche e normative economiche, con il duplice scopo di consolidare la fiducia reciproca e favorire la convergenza. È indubbio che ne discendano vincoli notevoli per i governi, costretti a misurarsi, in grande trasparenza, con obiettivi comuni europei e con il giudizio dei partner, anziché essere liberi di badare essenzialmente alla sola prospettiva domestica e magari, al loro tornaconto elettorale.
Il sistema esiste da anni e per il nostro Paese è sempre stato ostico; uno slalom fra richiami, manovre, manovrine e procedure. Le cause sono note, in particolare: bassa crescita economica; disoccupazione; deficit e debito pubblico; insufficienze nella complessiva azione statale. Non sono patologie recenti, tante ce la portiamo dietro da decenni e la crisi le ha accentuate. Oggettivamente, in Italia, occorre una modernizzazione strutturale: per rilanciare la competitività industriale, commerciale e finanziaria; per creare opportunità di lavoro e di studio; per tornare a essere un posto in cui si vive bene, con amministrazioni efficienti e nel rispetto delle leggi, dei soggetti più deboli, del patrimonio artistico e culturale, dell’ambiente. Questo l’Unione Europea ci chiede con insistenza: non solo di risanare i conti, ma di fare molto di più, con reali risultati e non meri tentativi. Dunque, nelle discussioni in sede Ue, la sfida di fondo non va elusa incolpando le istituzioni comuni e i partner di diffidenza verso di noi o piegandosi a diktat incongrui. Serve poco bisticciare; piuttosto, bisogna impostare una strategia politica più ambiziosa.
Abbiamo davanti alcuni mesi preziosi. Dal 2016 delle presidenziali Usa, della Brexit e in questo 2017 di elezioni, specie in Francia e Germania, l’Europa si trova in una sorta di «surplace». Non si sciolgono i nodi, si tende a evitare gli scontri, si aspetta per vedere se gli esiti del voto permetteranno al consueto binomio franco tedesco il rilancio del processo d’integrazione. Un periodo propizio, da un lato, per negoziare condizioni favorevoli e dall’altro, per fare proposte intorno alle quali raccogliere consensi utili per quando, a fine anno, arriverà il tempo delle grandi decisioni. Così, limitandoci al comparto dell’economia e in attinenza al poc’anzi descritto esercizio in corso, varrebbe la pena riprendere l’iniziativa politica, almeno, su due idee di cui si era già ragionato — e molto — nel 2012 e nel 2013, fra l’altro nel cosiddetto «Rapporto dei 4 presidenti».
La prima, riguarda la possibilità di un accordo, formale e vincolante, fra l’Unione e uno Stato che intenda varare significative riforme, per assicurare un contesto stabile alla realizzazione di quest’ultime. Tempi, modi, costi e vantaggi di ciascuna riforma, rientrante fra quelle indicate dalle ‘raccomandazioni’ ai Paesi, sarebbero specificati in dettaglio e poi, approvati a livello Ue; in parallelo, allo Stato verrebbe dato un incentivo finanziario o garantito che i costi non gravino sui conti pubblici, ai fini del rispetto dei parametri fissati dalle attuali normative. Nel 2012, si parlò di «contractual arrangement»: nozione improvvida che spaventò quasi tutti. Invece, l’idea è particolarmente interessante per noi e fu un errore abbandonarla. Ci eviterebbe lo stillicidio delle annuali richieste di «flessibilità» sulle regole, per fare nuovi debiti, senza garanzie di risultato; inoltre, il beneficio così ottenuto, indurrebbe il governo a concretizzare davvero gli intenti riformatori, nei termini concordati. La seconda idea, ha una travagliata storia: si tratta di dare all’eurozona una circoscritta «capacità di bilancio», con la facoltà di chiedere prestiti ai mercati. A tale scopo, quattro anni fa si evocava la possibilità di limitate emissioni di titoli di debito comune, ma senza implicare una condivisione («mutualisation») dei debiti nazionali; naturalmente, si evitava la parola tabù «eurobond». Rimase un’ipotesi, eppure le risorse così raccolte potrebbero servire: ad affrontare choc, come quelli dell’ultima crisi; a creare un’assicurazione europea per i disoccupati; a finanziare investimenti produttivi; a offrire — spunto recente — alternative d’investimento sicuro alle banche. Inoltre, se l’eurozona s’indebitasse a tassi verosimilmente bassi, lo farebbero di meno gli Stati, con sollievo per quelli — come noi — che pagano interessi alti. Obiettivi di notevole rilievo, specie per l’Italia che, quindi, dovrebbe attivarsi per fare passi avanti.

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