22 Novembre 2024
Bandiera Italia

Le lamentele a luci spente. E le diffidenze tra gli alleati

Cominciano Pd e Cinque Stelle, finisce con tutti che cantano «Fratelli d’Italia» gli uni contro gli altri armati, così, tanto per dare un dolore a Goffredo Mameli. Qualcuno della Lega si distrae e si unisce al coro anche nella seconda strofa, quella del «Dov’è la vittoria/le porga la chioma/che schiava di Roma/Iddio la creò». Subito ci mettono una pezza e sventolano la bandiera della Serenissima, in risposta ai banchi del Pd che avevano esposto cartelli tricolore ottenendo un «meglio della bandiera rossa» in risposta.
Poi è lo sbraco definitivo. Cori da stadio del centrodestra: «Non vincete mai! Non vincete mai!». Risposte dall’ala sinistra: «Scemo! Scemooo!». «Seduta sospesa! Seduta sospesa! Chiudete il collegamento tv!», urla il presidente di turno, Gian Marco Centinaio, preoccupato anche per i ragazzi delle scuole accorsi alla lezione di democrazia.
23 gennaio, si fa sera, legge sull’Autonomia differenziata, aula del Senato. Tempo di mietitori. C’è da mettere fieno in cascina, per le elezioni regionali e per le europee. Un punto per la Lega, passata nella sua storia dalla secessione alla riforma. Ma anche per Fratelli d’Italia, che concede le briciolone, mica le briciole, per portare a casa il piatto ricco del premierato.
E che comunque pensa che il Carroccio qualche regione del Nord dovrà pur mollarla. Pacchetto completo, c’è pure lariforma della Giustizia, cara a Forza Italia. Fieno elettorale anche per le opposizioni, che sull’Autonomia minacciano il referendum e si apprestano a tentare di affossare nelle urne pure la nuova forma di Stato.
Fin qui, visioni opposte e gioco delle parti, che ci sta. Ma, mentre Roberto Calderoli fa il maestro di cerimonia, tra Lega, FdI e Forza Italia si combatte, sotterranea, la vera battaglia. Perché Antonio Tajani, pure lui, non si fida. Salvini vuole la legge approvata anche alla Camera prima delle europee, FdI dice nì, che non è un no, ma somiglia al «mo vediamo» caro a Eduardo De Filippo.
«Grazie al governo e grazie al patto di maggioranza! — urla il capogruppo leghista Massimiliano Romeo — Ne andiamo fieri: più poteri al premier e più autonomia sul territorio!». «Mercanti! Baratto! Vi fermeremo col referendum, difenderemo noi il Sud», gridano i Cinque Stelle. «Ma quale baratto — replicano da FdI — C’è un percorso votato dagli italiani: autonomia, premierato, giustizia».
Andrea Giorgis, Pd, non hanno spiegato che ormai è campagna elettorale e si lancia in una ricostruzione puntigliosa e un po’ certosina del perché questa riforma divide il Paese tra ricchi e poveri, aiutato nel finale dai suoi che alzano il tricolore accusando la maggioranza di essere «Fratelli di mezza Italia». «Meloni svende l’unità nazionale alla Lega», accusa il capogruppo dem Francesco Boccia. Per gli azzurri, come in un campo di rieducazione cambogiano, tocca al cosentino Mario Occhiuto, fratello del governatore della Calabria, pronunciare il sì, e si fa aiutare da Leonardo e Michelangelo. Azione si astiene, ma non Mariastella Gelmini che, in accordo con Carlo Calenda, vota sì in dissenso «per coerenza con l’attività svolta come ministro di Draghi» e per salvare i fondi del Pnrr.
Alzi la mano poi chi ci ha capito qualcosa sui Lep, che sarebbero i livelli essenziali delle prestazioni, da garantire a tutte le Regioni. «Prima i Lep. Ma non ci sono i soldi. No, ma si risolverà. Bisogna attendere. No, partiamo lo stesso».
Maggioranza blindata in Aula, un po’ meno a luci spente. «Paradosso incredibile, nel 2001 la sinistra pre Pd spingeva per l’autonomia e An era furiosamente contro. Neanche oggi FdI ci crede, e poi i soldi per quella roba non ci saranno mai, è una bandierina che servirà solo a dare voti al Sud alle opposizioni. E attenti: questa legge è ordinaria e in poco tempo è bell’e fatta. Sul premierato invece siamo in alto mare».
Quanto è alto questo mare? Pure in zona centrodestra sulla riforma dello Stato ci sono tanti dubbi: «Non si può eleggere direttamente il premier grazie a un premio di maggioranza. Ci sta pure ridurre i poteri politici del capo dello Stato, ma ci vuole il 50 per cento, e se non si raggiunge serve il ballottaggio». E pure il simul stabunt simul cadent, cioè dritti al voto se il governo va in crisi, trova dubbi. Ciò non toglie che si vada avanti comunque. Partita lunga.

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