19 Settembre 2024

Non è mai troppo tardi per rimettere tutto in discussione e aprire un dibattito su quali siano i beni pubblici essenziali che lo Stato debba erogare a livello nazionale e su come debba farlo per garantire sia efficienza che coesione territoriale

Il dibattito sulla autonomia differenziata ha acceso gli animi e il referendum per abrogarla potrebbe costituire la grande battaglia di autunno. Sembrerebbe bizzarro perché in un certo senso la Calderoli è una legge quadro attuativa, che dà gambe a quanto già previsto dalla riforma costituzionale del 2001, riforma voluta dal centro-sinistra. Ma non è un caso che quella riforma non sia mai stata attuata completamente. La nuova, purtroppo, non risolve nessuno dei problemi originari che ne spiegano l’insuccesso. Non è mai troppo tardi per rimettere tutto in discussione e aprire un dibattito su quali siano i beni pubblici essenziali che lo Stato debba erogare a livello nazionale e su come farlo per garantire sia efficienza che coesione territoriale. I problemi toccano sia la sostanza che la attuazione della riforma, ed è bene, per la chiarezza, distinguere i due aspetti.

La sostanza
La riforma del 2001, come la legge Calderoli, è basata su alcuni principi fondamentali: decentralizzazione di competenze attraverso una legislazione concorrente (Stato e Regioni) su un largo numero di funzioni fondamentali, per la precisione ventitré — tra cui istruzione, sanità e politiche energetiche — , e possibilità per le Regioni di chiedere particolare autonomia su di esse (legislazione quindi non più concorrente) in un federalismo che si potrebbe definire à la carte. A chi non la richiede – deve essere garantito un finanziamento idoneo ad erogare servizi e beni pubblici adeguati ad un livello di prestazioni essenziali (Lep) attraverso un fondo perequativo che compensi la differenza fra fabbisogno e capacità fiscale delle Regioni. La condizione è che i Lep siano definiti precisamente e che si rispetti il vincolo che questo non risulti in un aumento della spesa pubblica nazionale.
La motivazione essenziale è in astratto condividibile. In Italia ci sono grandi differenze di capacità amministrativa. Perché non concedere più autonomia alle Regioni che possono gestire meglio del governo centrale alcune materie, visto che comunque la condizione per ottenerla è devolvere il gettito erariale? Alle altre – almeno in principio – sarà comunque garantito un finanziamento idoneo ad erogare servizi e beni pubblici adeguati ad un livello di prestazioni essenziali (Lep).
Ma non è così semplice. Con l’autonomia differenziata, vengono meno allo Stato centrale strumenti di coordinamento delle politiche pubbliche, il che è problematico in particolare in presenza di quello che gli economisti definiscono «esternalità», cioè effetti che l’attività di una Regione potrebbe avere sulle altre senza che questo sia compensato o da una tassa (nel caso che gli effetti siano negativi) o da un sussidio (per gli effetti positivi). In molte materie le politiche di una Regione hanno conseguenze per quelle limitrofe e non solo. In questi casi, senza coordinamento, ci sarebbe una sottoproduzione di beni pubblici essenziali e non è difficile immaginare un contesto di confusione normativa e di «federalismo competitivo». Questo è un tema ben noto a livello europeo, dove si è capito che queste esternalità caratterizzano materie fondamentali come ambiente, salute, istruzione e tecnologia e su di esse è necessario un maggiore coordinamento delle politiche comunitarie. Va quindi analizzato attentamente materia per materia quali siano costi e benefici della devoluzione. La frammentazione, in molti casi, va a scapito non solo delle Regioni più arretrate, ma anche di quelle più avanzate.

Attuazione
I principi su cui poggia la riforma — autonomia differenziata e Lep a invarianza dei saldi di spesa pubblica — sono difficilmente attuabili. Se ne discute dal 2001. Come evidenziato dalla Banca d’Italia e dall’Ufficio parlamentare di Bilancio in più di venti anni poco o nulla è stato fatto. Determinare il finanziamento dei Lep è molto difficile. Occorre conoscere i costi standard di ogni bene e servizio erogato in modo efficiente, determinare il livello di prestazione minima e, contestualmente, stabilire i fabbisogni di ogni amministrazione locale sulla base delle risorse disponibili. Missione quasi impossibile.
Inoltre, finanziare i Lep, mantenendo la spesa pubblica invariata con meccanismi perequativi tra Regioni ad alta e bassa capacità fiscale è altrettanto difficile e di fatto significherà un aggravio di spesa per lo Stato nelle Regioni più arretrate. Laddove gli enti territoriali hanno speso poco per alcune prestazioni, l’introduzione dei Lep determinerà un aumento di finanziamento rispetto alla spesa storica (vedasi per esempio il caso degli asili nido, uno dei pochi in cui sono stati fissati i Lep nella misura di un numero di posti per la scuola dell’infanzia pari al 33 per cento della popolazione dei bambini nella fascia di età 0-3 anni per ogni Comune). Come nel caso degli asili, lo scarto tra il finanziamento dei Lep e la spesa storica dipende dalle politiche virtuose (pensiamo alle politiche per l’infanzia nel centro-nord) di alcune Regioni e dalle politiche poco virtuose di altre, con il risultato che a quelle finora meno virtuose saranno concessi più finanziamenti per raggiungere i livelli essenziali.
Questi sono esattamente i problemi che hanno inceppato l’attuazione della riforma del 2001. Oggi, dopo un quarto di secolo, il governo fa una forzatura enorme dando il via all’autonomia differenziata senza garantire il federalismo fiscale. Un salto nel buio.

Gli effetti
Ma, tornando alla sostanza, una domanda centrale è quale siano gli effetti dell’autonomia differenziata sulla coesione territoriale anche nel caso in cui funzionassero i Lep. Ci sono motivi per pensare che siano negativi. Per due ragioni.
La prima è che, anche accettando un aggravio di spesa pubblica, vi è un equivoco di fondo sui Lep. Si ritiene che finanziarli sia garanzia di equità di erogazione di servizi sul territorio. Non è così. Il caso che contraddice questa convinzione è la sanità, materia per cui qualcosa di simile ai Lep esiste già sotto forma dei livelli essenziali di assistenza (Lea), introdotti per la prima volta nel 1999. Nonostante i Lea e il loro finanziamento, la disparità di trattamento nell’ambito sanitario tra Nord e Sud è evidente. Sistemi di monitoraggio delle erogazioni dei Lea, piani di rientro e persino commissariamenti non sono stati in grado di garantire la convergenza delle prestazioni. La storia dei Lea insegna che, quando la capacità amministrativa e le infrastrutture sono di bassa qualità come nelle Regioni del Mezzogiorno, il finanziamento per ridurre i divari di prestazione non è sufficiente.

Il problema del Mezzogiorno
La seconda, è chela riforma è un disincentivo per il rinnovamento della classe dirigente del Sud. Sabino Cassese ha difeso l’impianto della riforma sostenendo il contrario. Ci permettiamo di dissentire.
La questione è importante perché il problema del Mezzogiorno sta proprio nel non essere riuscito ad esprimere una classe dirigente locale adeguata. Questo lo si deduce facilmente dal comportamento elettorale nelle diverse aree del Paese. Nel Nord, nonostante la dissoluzione dei partiti tradizionali e l’indebolimento del loro radicamento sul territorio, si sono formate classi dirigenti in grado di gestire Regioni e Comuni in modo efficiente, capaci di garantire servizi simili a quegli dei nostri partners europei più avanzati. Questa cultura di governo regionale è stata premiata dagli elettori in modo costante negli ultimi decenni (Lega e centro-destra al nord, centrosinistra nel centro-nord) e senza notevoli differenze di voto tra elezioni politiche nazionali e europee da una parte ed elezioni locali dall’altra.
Al contrario, nel Mezzogiorno, i politici locali sembrano governare in consorterie di potere in cui si aggregano interessi particolari più che istanze e politiche generali. Questo è il motivo fondamentale per cui il voto nel Sud è più fluido. Nelle elezioni nazionali o europee si è passati da maggioranze per il Partito democratico (Europee 2014) o i Cinquestelle (Politiche 2018) a maggioranze per Lega e FdI (Politiche 2022) a crolli per i Cinquestelle e riposizionamento per il Partito democratico (Europee 2024). Gli elettori, invece di premiare le classi dirigenti a livello locale e nazionale, votano contro e vengono costantemente delusi. La fluidità del voto testimonia che non ci sono interlocutori credibili tra la società civile e le forze politiche del Paese in queste Regioni. Con qualche eccezione, il bilancio dei governi locali è stato negativo. Quando sono stati attribuiti più poteri si è fallito: dal mancato uso dei fondi di coesione alla gestione della sanità. Semmai ne facessero richiesta, è facile prevedere che più autonomia per queste Regioni peggiorerebbe lo status quo.
Con l’autonomia differenziata gli incentivi alla formazione di classi dirigenti nel Mezzogiorno responsabili e capaci diminuiscono. Con o senza richiesta di autonomia, i politici locali si troveranno impreparati o deresponsabilizzati ed intenti a richiedere il finanziamento per i Lep – della cui erogazione inefficiente sono corresponsabili – con logiche risarcitorie e di maggiori fondi. La cultura di governo basata sulle richieste allo Stato centrale e alle Regioni più ricche rispetto alla cultura di governo del fare troverà nuova linfa, allontanando ulteriormente le forze più dinamiche della società dalla politica locale. Invece della responsabilizzazione della classe dirigente al Sud, si otterrà quindi il contrario.
Comunque si rigiri la frittata, questa legge fa male sia al Nord che al Sud e rischia di gettare il Paese in un caos amministrativo di cui veramente non abbiamo bisogno.

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