22 Novembre 2024

Fonte: La Stampa

Studenti computer

di Andrea Malaguti

La dispersione scolastica è al 15%, molto sopra gli standard europei. I casi di Japigia e Quarto Oggiaro dicono che il riscatto è possibile

C’è un momento in cui il nostro sistema scolastico sembra scaricare i ragazzi anziché sostenerli, e quel momento, che finirà per pesare su tutta la loro esperienza educativa, è il triennio delle scuole medie. A cinque giorni dalla chiusura delle iscrizioni per l’anno prossimo abbiamo cercato di capire come si produce questo buco nero. E se esiste la possibilità di uscirne.

La bambina barese fa la quarta elementare e chiede: «Ti posso leggere un articolo della Costituzione?». Ha occhi grandi, molto grandi, la coda ben legata, un grembiule blu e una cosa da dire. Certo, quale? «Il primo». Con l’articolo 34 – sul diritto allo studio – è il suo preferito. «L’Itala è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Bello, no?». Che cosa è bello? «Queste due parole: repubblica e democratica. Vuole dire che non c’è il re. E che al centro ci siamo noi». Al centro ci siamo noi. Sembra lo slogan per il programma educativo perfetto. La bambina sorride stirando le labbra per vedere l’effetto che fa. Un bell’effetto «Giuro, non gliel’ho suggerito io», dice la maestra. In classe, dove è in corso il programma organizzato da «Save the Children», siamo entrati a sorpresa. «Dimmi la verità, tu fai l’università, non la quarta». La bambina ride. «Noooo». Ha stravinto. Ma è fatta come lei la scuola italiana?

Un po’ sì e un po’ no. Molto no a dire il vero. Ma questo istituto comprensivo di Japigia – quartiere metropolitano di frontiera di Bari, regno del clan Parisi, concentrato di case popolari, di madri sole e di padri assenti o agli arresti domiciliari, che da qualche anno sta ricominciando a respirare – ha una storia diversa sulla quale vale la pena soffermarsi assieme a quella dell’istituto gemello di Quarto Oggiaro, Milano, dall’altra parte d’Italia, perché racconta molto della battaglia quotidiana che si combatte nelle scuole per impedire che l’energia atomica che ogni ragazzino si porta dentro si perda stupidamente per strada. Qui pubblico e privato lavorano assieme contro lo spreco della qualità e dell’intelligenza, una malattia, chiamata «dispersione scolastica», per la quale il nostro Paese, con una media del 15%, è ai primi posti nelle classifiche di quella Unione Europea che vuole rientrare sotto il 10% entro il 2020 partendo da una media del 12,8%. Improbabile che l’italia ce la faccia. «Negli Anni Sessanta don Milani sosteneva che il problema della scuola è il ragazzo che si perde. A 50 anni di distanza credo che potremmo fare la stessa riflessione», dice Francesca Bilotta, responsabile del programma scuola di «Save the Children».

IL BUCO NERO

Ci sono i numeri. E poi c’è la vita. Per scattare una fotografia alla scuola abbiamo messo le due cose assieme, partendo da un’esperienza – ribattezzata «Fuoriclasse» – condotta da «Save the Children» in 6 città italiane (Milano, Torino, Napoli, Crotone, Bari e Scalea) e dall’analisi dei risultati di questa esperienza fatta dalla fondazione Agnelli. Sono molte le iniziative pubbliche per formare i professori e integrare i programmi, ma nessuna prevede un riscontro basato su una domanda semplice: a che cosa è servito quello che abbiamo fatto? I risultati di «Fuoriclasse», alla fine di cicli di due anni nelle quarte e quinte elementari e nelle seconde e terze medie, sono stati misurati. Non cambiano il mondo. Ma lo migliorano sensibilmente. «Abbiamo lavorato su apprendimento e motivazioni, cercando di fare delle scuole dei luoghi più belli anche fisicamente, dove sia piacevole andare. Siamo riusciti a ridurre il numero delle assenze, dei ritardi e il disinteresse da parte delle famiglie», dice la Bilotta. Cresciuti anche la media voti e le relazioni interpersonali.
Il punto di partenza era chiaro. La ruota si inceppa alle scuole medie. Lo dicono i test comparativi internazionali. Dalle elementari escono studenti con una preparazione omogenea e superiore agli standard degli altri Paesi. Nei tre anni successivi si assiste a un crollo, il sistema smette di funzionare e solo chi ha famiglie sane (o chi finisce in scuole fortunate) regge il confronto con i coetanei all’estero. Da uno, due, tre maestri, formati per preparare le classi sia da un punto di vista delle competenze sia da quello pedagogico, si passa al «disciplinarismo»: dieci professori preoccupati di gestire solo la propria materia. E docenti di matematica che solo nel 9,7% dei casi (dati fondazione Agnelli) sono laureati nella materia che insegnano. Nessuno ha specifiche competenze pedagogiche e anche se i professori sono tenuti a costanti corsi di aggiornamento, non sono obbligati a fornire le proprie prestazioni nelle ore pomeridiane e il tempo scolastico finisce per essere insufficiente. Ma se non escono dalla crisi i docenti non esce dalla crisi la scuola. «C’è un altro dato: l’età degli insegnanti è la più alta d’Europa e quella degli insegnanti delle medie la più alta di tutte. La Buona Scuola torna a investire nell’educazione, ma ha una lacuna grossa: mette al centro i professori e non gli studenti, che continuano ad avere problemi in particolare in matematica e scienze», dice Andrea Gavosto, direttore della fondazione Agnelli.
La domanda che resta sullo sfondo è questa: i nuovi centomila insegnati sono stati assunti per sanare – giustamente – le posizioni individuali o perché il sistema aveva bisogno delle loro competenze? Quando per 500 posti si assumono 10 mila docenti di diritto diventa difficile immaginare un sistema in equilibrio.
Le statistiche dicono ancora che alle superiori si nota una tripartizione legata al ceto familiare. Chi sta meglio va al liceo recuperando una preparazione che sopravanza gli standard internazionali, chi sta così così finisce negli istituti tecnici (dove i valori tornano sotto la media), chi sta peggio scommette sui professionali, che nei test comparativi – con delle ovvie eccezioni – ottengono risultati deprimenti. Un inarrestabile circolo vizioso.
IL FIGLIO DEL BOSS
A Japigia puoi vivere la vita seguendone le mosse, come è successo per anni, oppure anticipandole per riuscire a fregarla. Patrizia Rossini, dirigente scolastica dell’istituto comprensivo Verga ha scelto la seconda strada. Di fianco al suo istituto ci sono tre campi rom. Lei ha assorbito i ragazzi e ha messo a loro disposizione le docce. Sembra una piccola cosa, ha fatto la differenza. Quindi, mutuando un modello lombardo, ha aperto un programma di studio in cui usa dei robottini per insegnare ai ragazzi qualunque cosa, dalla matematica alla storia. Ci fanno anche un campionato nazionale e spesso Japigia lo vince. Infine si è rivolta a «Save the Children». Come è il vostro programma? Gliel’hanno spiegato in cinque punti. Uno: formazione ai docenti sulle dinamiche della classe. Due: confronto tra docenti e studenti nei consigli consultivi per capire che cosa serve alla scuola e ai ragazzi. Tre: laboratori extrascolastici dalla matematica alla musica. Quattro: campus per conoscersi. Cinque: riqualificazione degli spazi comuni. Apprendimento e motivazioni. La Rossini ha detto «favoloso», gli insegnanti hanno detto «se proprio dobbiamo», gli studenti hanno detto: «adesso la scuola ci piace». I numeri dicono che è andata bene. Anche se per i miracoli non è ancora il tempo.
Nell’istituto comprensivo diretto dalla Rossini ci sono 1200 ragazzi. Il 10% viene da famiglie malavitose. Riuscire a fare amare la scuola è doppiamente difficile. Ce la si fa? «Certo che ce la si fa». Un giorno è arrivato a scuola il figlio di un boss molto popolare nel quartiere, uno di quelli per cui si sparano i fuochi d’artificio quando esce dal carcere. Dopo poche settimane il bambino è andato dalla Rossini e le ha detto: «E se io dico in giro che tu mi hai fatto delle cose?». Lei gli ha risposto. «Vediamo se vale di più la tua o la mia parola». Poi l’ha abbracciato. «Da quel momento ha cominciato a fidarsi e ora è uno studente di qualità. Tra noi e i ragazzi ci deve essere un’alleanza. E’ per questo che il lavoro con “Save the Children” funziona».
I RAGAZZI DI QUARTO OGGIARO
I ragazzi di Quarto Oggiaro devono fare molta fatica per volersi bene. E a guardarsi attorno non è difficile capire perché. Trentaduemila persone, seimila alloggi di edilizia popolare, che diventano il 70% di tutte le case esistenti nella zona Capuana-Lopez-Pascarella, 250 pregiudicati agli arresti domiciliari, una presenza di stranieri che nella fascia di età compresa tra gli zero e i trentaquattro anni è pari al 35% della popolazione, settanta etnie diverse e neanche un liceo. Come se dovesse essere chiaro che una parte dell’istruzione pubblica, quella che più spesso porta alle università, a Quarto Oggiaro, dove la dispersione scolastica è del 17%, con punte del 40, contro il 15% della regione Lombardia, è preclusa. Non c’è un solo motivo per entrare nel quartiere se non sei residente e per giunta è piuttosto complicato. Si può arrivare in treno, oppure in macchina, scavalcando uno dei quattro ponti che fisicamente e simbolicamente dividono Quarto dal resto di Milano. «Una condanna e un’opportunità», dice Gianluca Alfano, coordinatore di spazio Agorà, il centro gestito dalle Acli e da «Save the Children» dove i ragazzi degli istituti Trilussa e Val Lagarina fanno i loro laboratori. «Da un lato si vive un senso di isolamento, dall’altro si crea un forte senso di comunità, basti pensare che le associazioni al lavoro nel quartiere sono venticinque». Una catena della solidarietà che non ha eguali e di cui, evidentemente, c’è molto bisogno. Piazzetta Capuana, sede del programma di «Save the Children», fino a pochi anni fa era il più grande centro di spaccio del quartiere, oggi è piena di murales con gli articoli della costituzione.
Quarto Oggiaro è quella che è, ma avrebbe anche un punto di ritrovo di grande bellezza, Villa Scheibler. Solo che i ragazzi non la frequentano perché la ritengono troppo elegante per essere anche loro. La collaborazione tra le scuole e «Save the Children» serve anche a restituire a questi bambini-adulti il senso di loro stessi. Funziona? Messi di fronte alla domanda, che cosa ti è piaciuto di «Fuoriclasse»?, gli studenti delle medie hanno risposto così: «Ci sono piaciute le attività per migliorare la scuola. E poi c’è piaciuto perché potevamo fare vedere ai professori quali problemi c’erano. C’era il rispetto. E c’era lo scherzo. Però in un modo che non offendeva. E quando qualcuno si annoiava un po’ sapeva che comunque c’era uno scopo». Una scuola fatta così non trasforma la vita in uno scivolo verso la felicità, ma può cambiare i destini individuali e anche quelli collettivi. «Ci sono ragazzi che si perdono, come Paolo che, figlio di una tossicodipendente e di un padre che non ha mai visto, era finito nei guai per avere rubato un motorino. L’abbiamo recuperato. Un giorno ha picchiato un coetaneo che aveva sputato a un anziano. Gli hanno tolto la messa in prova e l’hanno mandato al Beccaria, dove i ragazzi di Quarto sono troppi. Ma le storie che funzionano sono decisamente di più», dice Camilla Bianchi responsabile del progetto di «Save the Children» a Milano. Saluta una bambina che gioca in un cortile. L’abbraccia. Si incammina verso la Ferrovia Nord. Sul muro c’è una scritta che dice: gioventù bruciata. È il modo che hanno i ragazzi di Quarto per prendersi in giro. E soprattutto per prendere in giro chi li considera così. Il vento sta cambiando. Anche grazie alla scuola e all’associazionismo. E allora meglio prendere di petto il quotidiano immaginando di essere nati sotto la luce obliqua di una strana stella – buona o cattiva che sia – che solo loro, per adesso, possono vedere.

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