Fonte: Corriere della Sera
di Francesco Giavazzi
L’alternativa alla nazionalizzazione di Mps è la conversione dei titoli in azione, una affare rischioso. Se invece interverrà lo Stato, la cifra sarà importante e peserà sul Pil. Il costo, come è avvenuto in Irlanda e Spagna, va ripagato rivendendo poi gli istituti
Non aver capito quanto fosse urgente dare stabilità alle nostre banche è stato forse il maggior limite del governo di Matteo Renzi. Quanti voti ha perso, un anno fa, quando il Consiglio dei ministri approvò il decreto — proposto da Bankitalia e Ministero dell’Economia — per salvare quattro banche del centro-Italia azzerando, oltre al valore delle azioni, anche i titoli subordinati detenuti da oltre 10 mila piccoli risparmiatori in molti casi raggirati da quelle banche? È stata singolare e ben poco lungimirante la scelta dei governi degli ultimi anni di lasciare macerare i problemi delle nostre banche. Certo, affrontarli significava stanziare cifre importanti che avrebbero fatto lievitare il debito pubblico. Ma soprattutto avrebbe richiesto dare risposte a quei risparmiatori che hanno creduto a ciò che per anni hanno raccontato i banchieri. In alcuni casi avrebbe significato far venire alla luce responsabilità che risalgono ai tempi, non poi così lontani, in cui era la politica a gestire le banche.
La vicenda del Monte dei Paschi di Siena è emblematica. Avrebbe anche significato spiegare agli italiani perché, quando l’Unione Europea propose la direttiva sul bail-in, governo, Parlamento, Consob, Banca d’Italia, tutti la accettarono senza fiatare e soprattutto senza spiegare ai risparmiatori che dal giorno dopo alcuni loro investimenti sarebbero stati meno sicuri. Il governo di Paolo Gentiloni rischia oggi di ripetere quegli errori. Anche perché il ministro dell’Economia è il medesimo che un anno fa propose quel decreto e che da quasi tre anni spera che vi siano investitori internazionali disposti a mettere cinque miliardi di euro nella banca senese. Non si sono trovati in tre anni: perché si dovrebbero trovare in due settimane, entro il temine fissato dal braccio della Bce responsabile per la vigilanza bancaria? Un termine deciso non oggi, ma comunicato al governo e alle banche nel luglio scorso, sei mesi fa.
Se esiste ancora una strada che eviti la nazionalizzazione, questa probabilmente passa, come un anno fa, attraverso una perdita rilevante per i piccoli risparmiatori che detengono i titoli subordinati del Monte. Li avevano acquistati in 40 mila — sebbene da allora alcuni potrebbero averli venduti, quanti non si sa — con un investimento medio di 50 mila euro ciascuno. La banca nega che possano subire una perdita. Sostiene che la proposta di convertire questi titoli in azioni, non comporti alcuna perdita, anzi potrebbe essere conveniente. Se la banca offre loro azioni al valore di borsa attuale (circa 20 euro) essi, con poco più di 2 miliardi, divengono proprietari del 48% circa della banca. Ciò significa valutare il Monte 4,8 miliardi. Il patrimonio netto del Monte (dopo le svalutazioni e la conversione) vale circa 9 miliardi, quindi essi comprano azioni a 0,53 volte il valore degli attivi. Un buon affare?
Dipende: le azioni di Ubi valgono di meno (0,3 volte il patrimonio netto), quelle di Unicredit (dopo l’aumento di capitale varato ieri) più o meno lo stesso, 0,6. Il problema è se il patrimonio netto del Monte valga davvero 9 miliardi: se scoprissimo valesse di meno, magari perché ci sono ancora sofferenze nascoste, per i piccoli azionisti la conversione sarebbe un pessimo affare. Ancor peggio se la banca dovesse in futuro emettere nuove azioni che diluirebbero il valore di quelle vecchie. L’alternativa è la nazionalizzazione previo rimborso dei piccoli risparmiatori. Se si arrivasse a questo, e lo Stato divenisse l’unico azionista del Monte, qualcuno dovrà spiegare quanto è costato rimandare così a lungo. Possiamo sapere a quanto ammontano le parcelle finora pagate alle due banche d’affari, Mediobanca e J. P. Morgan, incaricate di trovare azionisti privati e di garantire, tramite prestiti ponte, sufficiente liquidità alla banca? Perché nel caso di una nazionalizzazione quelle inutili parcelle le pagherebbero i contribuenti.
Se si arriverà ad un intervento dello Stato è importante che questo non si limiti a Siena. Bisogna evitare di continuare nella colpevole e cinica sottovalutazione dei problemi di altre banche importanti che potrebbero in un prossimo futuro trovarsi in difficoltà. È il caso delle popolari venete, di Carige e non solo. La cifra necessaria per dare stabilità alle nostre banche è rilevante: alcuni analisti dicono 40 miliardi. E potrebbero non bastare se non si ferma l’emorragia di prestiti non rimborsati. Un intervento di questo ammontare varrebbe circa il 2,5% del Pil. In altri Paesi il costo è stato ben più elevato. La crisi bancaria irlandese ha richiesto misure pari al 30% del Pil; quella spagnola il 10%; le crisi delle banche scandinave negli anni Novanta costarono il 9% del Pil in Finlandia, i 4% in Svezia. Ma questi denari sono poi stati in gran parte recuperati quando lo Stato, dopo aver stabilizzato le banche, le ha rivendute. Lo stesso è accaduto dieci anni fa negli Stati Uniti. Il nuovo governo deve evitare il rischio di una tempesta perfetta: correntisti spaventati che abbandonano le banche più deboli e investitori che voltano le spalle a un Paese troppo indebitato. Ci si rende conto che il tempo sta per scadere?