16 Settembre 2024

«Le nostre ombre sono più grandi delle nostre anime». È un passaggio di Stairway to Heaven, celebre brano dei Led Zeppelin. Se la citazione è lecita, e non scandalizza i critici musicali, sono parole che si attagliano perfettamente a quello che è accaduto nell’ultima tempesta finanziaria. Le ombre (sulla tenuta del sistema e sui bilanci delle banche) appaiono, nonostante le assicurazioni, ancora più grandi; le anime dei protagonisti (banchieri soprattutto svizzeri e americani alcuni organi di vigilanza ma non la Bce) al contrario, pericolosamente modeste.

Paradiso in terra?
L’interpretazione del testo della canzone lascia ampi margini di ambiguità. La scala porta davvero in paradiso oppure all’inferno? Il paradiso in terra esiste per tutti coloro che, non pagando pegno per i propri errori, non solo si arricchiscono ma scaricano il costo della loro imperizia (quando non colposa o dolosa) sulla collettività. Il moralhazard, l’azzardo morale che tutti i governanti — ultime le solenni parole di Joe Biden dopo il fallimento della Silicon Valley Bank — e le autorità di vigilanza dicono di combattere, alla fine è addirittura premiato.

Gli obbligazionisti
La scala porta all’inferno, invece, gli obbligazionisti di Credit Suisse che però, a differenza di quanto accade per i titolari di titoli ibridi At1 in altri Paesi, avevano firmato un contratto che li esponeva a penalità pari a quelli degli azionisti. Colpisce poi che il Credit Suisse fosse tra i 30 grandi gruppi che il Financial stability board — la cui sede, ironia della sorte, è a Basilea — considera a rischio sistemico e dunque soggetti a regole severe e controlli rigorosi. Sulla carta. Intanto, gli scricchiolii si allargano. E i timori toccano anche un gigante tedesco come Deutsche Bank che come la banca svizzera, specie con la sua filiale londinese, è esposta sull’investment banking e sui prodotti derivati. Preoccupati per la tenuta dei mercati, per il valore dei risparmi investiti e per la solidità degli istituti finanziari, sottovalutiamo altre «infernali» conseguenze.

L’azzardo morale
Ogni volta che l’azzardo morale vince (con i soldi dei contribuenti) la democrazia rappresentativa occidentale — con tutti i suoi valori che orgogliosamente difende nell’appoggio a Kiev contro Mosca — si indebolisce. Non esiste un mercato che registri questi danni permanenti alla fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni, non solo economiche e finanziarie, dei loro Paesi. Se ci fosse, ne saremmo più preoccupati. Lo è certamente un intellettuale svizzero come Tobias Straumann, storico dell’Università di Zurigo che ha analizzato — in un’intervista su Le temps — l’effetto della perdita di reputazione delle élite della Confederazione nello scandalo Credit Suisse. E trattandosi di una democrazia matura, invidiata, ammirata, addirittura diretta, modello per altre nazioni, l’allarme suona più forte.

I bonus ai dirigenti
In Svizzera segue alle polemiche sul diritto d’urgenza, avocato dal Consiglio federale nel periodo del Covid (per combattere il quale Berna ha impiegato 50 miliardi di franchi, meno di un quarto della cifra mobilitata per convincere Ubs a comprare la rivale, pari all’intero debito pubblico) e le generose garanzie confederali concesse, anche se non utilizzate, al gigante dell’energia Axpo. Il 24 marzo sono poi stati pagati, insieme agli stipendi, i bonus ai dirigenti di Credit Suisse. Anche a chi, nella dirigenza e nei vertici, è ritenuto responsabile della pluriennale mala gestione che causerà, oltre alle perdite per i risparmiatori, una valanga di licenziamenti conseguenza inevitabile della fusione forzata con Ubs.

La foto
Una fotografia pubblicata dal Financial Times di giovedì scorso vede gli agenti di polizia presidiare la sede centrale di Zurigo di Credit Suisse. Immagine impensabile, assurda soltanto qualche giorno prima. Se tutto ciò smuove le fondamenta di una grande democrazia, anche le altre non devono sentirsi tanto bene. Non vanno sottovalutate nemmeno le conseguenze, sull’umore popolare e sulle scelte dell’elettorato americano, del fallimento di Silicon Valley Bank. Federal Reserve e Fdic (Federal deposit insurance corporation) sono intervenute tardivamente per fermare il contagio.

La garanzia sui depositi
La decisione di garantire i depositi sopra i 250 mila dollari era probabilmente inevitabile. Ma è difficile giustificare l’estensione della garanzia pubblica anche a quei correntisti (il 90% dei clienti) che avevano depositato somme considerevoli, proventi del fund raising di aziende tecnologiche e di scienze della vita. Non certo normali risparmiatori. Correntisti che, di fronte a necessità di circolante o a impieghi più remunerativi, hanno ritirato i loro depositi causando il crollo dell’istituto che aveva investito tutto in titoli di Stato, deprezzati dall’aumento dei tassi.

La vigilanza
Silicon Valley bank operava (e lo farà ancora) nella California celebrata, invidiata ma anche detestata per le troppe ricchezze che si sono nel tempo accumulate, peraltro poco tassate, in una società sempre più diseguale. Una garanzia sui depositi per tutti, seppure limitata a un solo caso, può essere percepita non come un punto di forza della vigilanza bensì come una promessa non credibile e soprattutto non sostenibile su scala generale. Dunque, alla fine un segnale di debolezza. Un interessante studio di Erica Jiang, Gregor Matvos, Tomasz Piskorski e Amit Seru (Monetary Tightening and Us bank fragility in 2023) stima il valore contabile del patrimonio netto del sistema bancario americano — senza la possibilità (held to maturity) di tener conto dei cali di quotazione dei titoli, conseguenza del forte rialzo dei tassi — 2 trilioni di dollari, inferiore a quello dichiarato nei bilanci degli istituti.

I depositi non assicurati
Inoltre il 23% delle banche americane ha depositi non assicurati. Se la metà di questi correntisti — come hanno fatto i clienti di Svb — decidesse di ritirare i propri conti, almeno 190 istituti sarebbero a rischio. L’effetto leva fa il resto. In un articolo sul Financial Times, Robert Armstrong riportava le parole di un grande gestore di fondi, Terry Smith, preoccupato che alcuni istituti bancari avessero anche 20 dollari di attivi a fronte di un solo dollaro di capitale. E quest’ultimo, con una perdita del 5% negli investimenti, finirebbe annullato. «Ci siamo scordati troppo in fretta — è il commento di Marco Onado, docente di Istituzioni finanziarie alla Bocconi — la lezione della crisi del 2008. La legge Dodd-Frank pose rimedio alle sciagure della banca universale, reintrodotta con la cancellazione, nel 1999 in era clintoniana, del Glass Steagall Act del 1933. La cosiddetta deregulation era però cominciata negli anni ‘80 e portò al gravissimo dissesto delle Savings and Loans. La separazione tra attività bancaria commerciale e il più rischioso investment banking è stata poi largamente vanificata sotto la presidenza Trump. E chi fu uno dei più attivi lobbisti? Proprio il capo della Silicon Valley Bank, ovvero Greg Becker. E ci siamo dimenticati che i germogli del populismo spuntano proprio in quel periodo, con i Tea party a destra e Occupy Wall Street, a sinistra.

I costi per le democrazie
Negli anni Trenta, la politica americana ebbe il coraggio di mettere all’angolo grandi banche, come Jp Morgan. Oggi i rapporti di potere sembrano capovolti. E all’espressione too big to fail, troppo grandi per fallire, dovremmo sostituire too big to save, troppo grandi per essere salvate. O meglio, aggiungeremmo noi, troppo grandi per non essere salvate senza un costo (non misurabile) sulle democrazie rappresentative di un’economia di mercato.

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