22 Novembre 2024

Fonte: La Repubblica

Analisi Eurostat che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda (Gender gap adjusted) in Italia la differenza in busta paga fra uomo e donna è del 23,7% contro una media europea del 29,6%. Francesca Bettio – professoressa di Economia e Politica del lavoro dell’Università di Siena – fra le fondatrici di ‘In Genere’: “Il fatto che in Italia il tasso di occupazione femminile sia più basso rispetto alla media europea fa sì che nel loro complesso le donne italiane godano di una minore autonomia finanziaria”

Le donne guadagnano meno degli uomini. Decisamente meno: la legge è uguale per tutti, i  contratti pure, ma nel corso della loro vita lavorativa le carriere, le interruzioni, le scelte fatte o subite  fanno sì che questa parità sia solo apparente. Un rapporto diseguale con il reddito e con l’indipendenza economica  accompagna le donne dall’infanzia alla pensione, da quando percepiscono la paghetta – nemmeno quella ahimè uguale a quella dei ragazzi – a quando smettono di lavorare. Se lavorano. Si chiama gender pay gap: è la differenza che corre, a parità di mansione, fra lo stipendio di un uomo e quello di una donna. Riguarda non solo l’Italia, ma tutti i paesi del mondo e si misura sostanzialmente in tre modi. Da qualsiasi punto si parta  il risultato finale però non cambia: la busta paga delle donne è sempre la più leggera.

Se basta un’ora
Eurostat misura il divario retributivo uomo-donna partendo dalla retribuzione oraria lorda (gender gap unadjusted) di chi lavora in aziende con almeno dieci dipendenti. Un indice che assegna all’Italia una posizione quasi sorprendente. Il gap c’è, ma molto più basso rispetto alla media europea: si ferma al 5,3% contro un media dei 28 paesi Ue  del 16,6%. C’è da star contenti? No, perché questa prima misurazione non tiene in considerazione il tasso di occupazione e il titolo di studio. Il sistema italiano risulta così sopravvalutato: da noi, buona parte delle donne che lavorano sono  laureate e quindi con qualifiche tendenzialmente alte, ma restano drammaticamente rare, una minoranza rispetto alla possibile platea delle lavoratrici e  alle occupate degli altri paesi eruopei. II fatto che l’indice non distingua nemmeno fra settore di appartenenza pubblico o privato fa il resto. “E’ proprio il settore pubblico che fa guadagnare all’Italia un buon posto nella graduatoria ” dice Ulrike Sauerwald responsabile  della ricerca per Valore D, l’associazione delle imprese impegnate nell’equilibrio di genere. “In Italia nel settore statale la presenza femminile è molto forte e il contratto presenta condizioni di genere eque, nel privato non è sempre così”. E’ più facile risultare equilibrati se i premi di produzione, per esempio, sono distribuiti a pioggia o se l’anzianità ha ancora un peso nelle carriere, se l’ingresso è per concorso e se non esiste in busta paga la voce “superminimo”(quel margine di manovra attribuito all’azienda nell’assegnare una quota di retribuzione aggiuntiva).  “Solo scorporando i due settori il gender gap del pubblico scende al 4,4 per cento mentre quello del privato sale al 17,9. In nessun altro paese europeo la distanza è così evidente e ciò spiega in buona parte la posizione dell’Italia nella classifica generale” sottolinea Sauerwald.

Il peso del part time
Basta cambiare criterio per sconvolgere il risultato. Nell’ indice Eurostat che tiene conto del numero di ore lavorate sulla retribuzione mensile lorda (Gender gap adjusted) l’Italia fa un gran salto all’indietro: la differenza in busta paga fra uomo e donna sale al 23,7 % contro una media europea del 29,6 %. Questa volta i numeri smascherano l’inganno: le donne lavorano spesso part time, formula che, secondo l’Osservatorio dei consulenti del lavoro, interessa  circa la metà delle lavoratrici. Spesso però il lavoro a tempo parziale non è una scelta: è imposto dalla necessità di badare ai familiari, dalla mancanza di servizi, o dall’azienda stessa. Secondo i dati Istat il 19,5 per cento delle donne che lavorano in part time lo fanno involontariamente, dieci anni fa, prima dello scoppio della crisi economica quel tetto era fermo al 10 per cento.

Disoccupazione e indipendenza economica
Va ancora peggio se si guarda al reddito complessivo annuo di uomini e donne. Tutti e tutte, senza separare chi ha una occupazione da chi non ce l’ha. Si tratta del Gender overall earnings gap, (divario complessivo), una divisione in due blocchi, il maschile e il femminile, dalla quale usciamo malissimo. In Italia, infatti, le donne che lavorano (o meglio che svolgono un lavoro retribuito) sono ancora poche. I dati Istat parlano chiaro, nella fascia fra i 15 e i 64 anni lavora solo il 50,1 % delle donne, una su due (per gli uomini 68,7). Ma al Sud risultano occupate solo 33 donne su 100, 64 al Nord e 57 al Centro.  La disoccupazione di genere pesa sull’indice finale e confina l’Italia in una posizione imbarazzante. Qui il gender gap è fermo al 43,7% conto una media europea  del 39,6%. L’indice in questione è grezzo, l’ultimo rilievo Eurostat è fermo al 2014, ma per Francesca Bettio – professoressa di Economia e Politica del lavoro dell’Università di Siena – fra le fondatrici di “In Genere”, la rivista online che affronta tutti i temi del gender gap economico, la misura è tutt’altro che secondaria. “Questo indice ci permette di stimare l’indipendenza economica delle donne. E di conseguenza l’indipendenza del loro comportamento. Il fatto che in Italia il tasso di occupazione femminile sia più basso rispetto alla media europea fa sì che nel loro complesso le donne italiane godano di una minore autonomia finanziaria”. Una caratteristica alla quale, in realtà, si punta ad abituarle fin da piccole: alle figlie femmine, certificava l’Istat qualche anno fa (dati 2011) si danno meno soldi. Fra i 14 e i 17 anni ricevono regolarmente la paghetta il 42 per cento delle ragazze e il 53 dei ragazzi, per le prime il denaro è un regalo o un premio, per i secondi un flusso continuo da imparare a gestire.

Cosa c’è dietro il gap
La minore autonomia non nasce dai contratti, ma dai comportamenti e dalle scelte individuali. Volontarie o obbligate che siano. “L’elenco delle motivazioni che portano alle differenze di reddito è lungo – spiega Bettio – Le donne sono più istruite, ma la maggior istruzione non riesce a compensare una serie di fattori a loro sfavore. In particolare tendono a fare meno carriera e soffrono ancora di una distribuzione meno favorevole rispetto ai mestieri e ai settori con le retribuzioni più alte. Sono meno presenti nel mondo della finanza, fra manager, scienziati ed esperti informatici. Sono molto numerose nel settore della cura alla persona o nelle pulizie”.  Spesso, senza essere consapevoli delle conseguenze che ciò comporterà, cadono nel tranello della cosiddetta segregazione occupazionale: scelgono lavori più adatti allo stereotipo femminile (dall’insegnante alla parrucchiera, dalla cassiera alla segretaria) caratterizzati da retribuzione bassa e scarsa prospettiva di carriera, ma più compatibili con la gestione delle responsabilità familiari. Magari perché garantiscono vicinanza a casa, orari di routine, possibilità di part time o di interruzione del lavoro e assenza di trasferte. Tutto ciò che permette insomma di tenere assieme professione e famiglia. Ma tale compatibilità ha un costo elevato.

Il prezzo da pagare
Quanto vale dunque il gender gap? A misurarlo ci prova Job Pricing che raccoglie i dati autocertificati nelle retribuzioni nel settore privato. Nelle ultime rilevazioni (terzo trimestre 2019) la disparità di genere pesa in media in busta paga per un buon 9,8 % a favore degli uomini, che guadagnano in media circa 2.705 euro l’anno più delle donne.  Si va dagli oltre 8 mila euro dei dirigenti, ai  2.482 degli operai e  il divario può essere anche quantificato in termini di tempo: è come se le donne cominciassero a guadagnare, rispetto ai colleghi maschi, solo a partire dalla seconda metà di febbraio. E questo “ritardo” genera coseguenze che vanno oltre la Il ptovita lavorativa: le donne, certifica l’Istat, rappresentano il 52,2% dei pensionati, ma ricevono il 44,1% della spesa complessiva.

Come uscirne
Il problema non è solo delle donne, ma dell’intera economia e della possibilità di ripresa del Paese. Per questo è necessario uscire dal tunnel. “Ci vuole una vera e propria spallata” ha scritto in un suo editoriale sulla Stampa Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento delle statistiche sociali dell’Istat e pioniera delle statistiche di genere.“Le donne non possono essere più il pilastro del nostro sistema di welfare. Non possono più farcela. Lo dicono i numeri. Non possono sostituirsi come prima all’attività dei servizi sociali e sanitari. Non ne hanno più il tempo. Vogliono lavorare, vogliono realizzarsi su tutti i piani. Vogliono avere i figli che oggi non riescono ad avere, ma che desiderano. Vogliono anche valorizzarsi sul lavoro. E se la politica non riuscirà a capire che questa è una priorità essenziale per il rilancio del nostro Paese, si allontanerà sempre più inesorabilmente dai bisogni delle donne e del Paese”.

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