19 Settembre 2024

Nulla è escluso in questa fase in cui le decisioni vengono prese «riunione dopo riunione», ma per i cittadini una cura rapida potrebbe essere la soluzione migliore

Falchi contro colombe. Sarà questo, ancora una volta, il copione della riunione di settembre della Banca centrale europea, con la presidente Christine Lagarde nel ruolo a lei particolarmente congeniale di mediatore tra due componenti la cui differenza in buona sostanza si sovrappone a quella tra i Paesi settentrionali e quelli meridionali dell’Unione monetaria. L’esito più probabile – ma non necessariamente il più auspicabile – potrebbe essere, secondo molti analisti, quello di una pausa, in chiave wait and see, in una stretta che non si è certo conclusa.

I custodi dell’ortodossia
Nei Paesi “colomba” è facile vedere i falchi come arcigni e spesso “teutonici” custodi di un’ortodossia un po’ astratta, dottrinale se non ideologica, insensibili alle necessità dei cittadini. Oggi, dopo le rivelazioni – non nuove – delle anomalie del bilancio tedesco, appaiono persino ammantati da un velo almeno di ipocrisia.
Si può però interpretare la loro posizione in modo del tutto opposto. La cura contro l’alta inflazione è dolorosa, più dolorosa della cura della recessione, perché è più lunga e impone comunque una fase di stagnazione se non di contrazione dell’attività economica. Il rischio per le banche centrali che non agiscono con sufficiente determinazione è inoltre quello di dar inizio a una lunga, penosa agonia dell’economia, in cui l’inflazione non scende abbastanza e la crescita langue. È davvero la posizione più prudente, quella delle colombe?

Inflazione ancora elevata
È molto probabile che la stretta debba continuare comunque. L’inflazione resta elevata, soprattutto nella componente core, che esclude energia e alimentari non trattati e si concentra sui prezzi gestibili con la politica monetaria. L’indice complessivo, ad agosto era in crescita del 5,3% annuo, in calo dal massimo del 10,6% di ottobre 2022, e quello “di fondo” del 6,2%, in discesa dal record del 7,5% di maggio 2023. Il tasso di riferimento Bce, al 4,25% è ancora negativo in termini reali rispetto all’inflazione corrente, anche se è positivo rispetto alle proiezioni – che tra l’altro saranno ora riviste – per l’inflazione media del 2024 (3%) e il 2025 (2,2%).

Condizioni finanziarie poco variate
Le condizioni finanziarie segnalano un sostanziale ritorno dei rendimenti nella parte breve della curva – che esprime e realizza la politica monetaria – ai livelli di giugno, dopo la flessione di luglio. A fine luglio 2008, in occasione del precedente picco dell’inflazione, la curva dei rendimenti era decisamente più elevata (anche se il confronto ha un valore puramente indicativo per la profonda differenza delle condizioni macroeconomiche). Il cambio effettivo dell’euro, per quanto molto meno significativo, è leggermente tornato sotto la media di lungo periodo, superata prima della pausa estiva: da luglio a oggi, l’euro/dollaro ha seguito un trend discendente con poche interruzioni. A questo livello, a monte della catena di trasmissione, la strette è ferma da tre mesi circa.

Costo del credito lontano dai massimi
Scendendo a valle della cinghia di trasmissione della politica monetaria, il rialzo del costo del credito appare decisamente molto rapido – si partiva da livelli molto bassi – ma, anche in questo caso, non si sono raggiunti i livelli del passato, quando l’inflazione era meno elevata e le pressioni meno persistenti di quello attuale.
I prestiti alle imprese non finanziarie sono quindi fermi ai livelli, elevati, di settembre 2022. Il rallentamento è ormai evidente: la politica monetaria inizia a mordere davvero. Gli aggregati monetari – che hanno un valore solo segnaletico, ma continuano a essere prese in considerazione dal Consiglio direttivo – mostrano del resto una flessione di M1 che prosegue da settembre scorso e una distruzione di base monetaria (la “moneta della Banca centrale”) ormai tornata ai livelli di aprile 2021.

Consumi e mutui
Ha però davvero senso fermarsi? Non è sbagliato osservare la situazione dal punto di vista dei creditori: i lavoratori dipendenti, innanzitutto, che vedono cadere il potere d’acquisto con limitate possibilità di recupero e i risparmiatori, che subiscono rendimenti reali negativi. Per costoro una cura rapida, anche a costo di un limitato undershooting dell’inflazione, è probabilmente la strada preferibile. Non vanno dimenticati, è vero, coloro che hanno sottoscritto mutui a tassi variabili e bassi – troppo bassi, con il senno di poi – ma anche per costoro una breve fase di sofferenza finanziaria, che la politica fiscale può alleviare, è preferibile a una lunga agonia. Se la cura è dolorosa, è importante che sia breve, per tutti.

Il nodo dei debiti pubblici
Il rischio, però, è che vengano a essere privilegiati altri attori economici, i debitori netti e soprattutto i governi che vedono aumentare i tassi di interesse. Dietro alcune rigide prese di posizione dei “falchi” c’è allora proprio il desiderio – tutt’altro che condannabile – di evitare che governi (e imprese) indebitati “oltre misura” abbiano vantaggi rispetto ai lavoratori che più difficilmente riescono a recuperare quanto hanno perduto. Da ottobre scorso, l’indice dei prezzi ha frenato con più intensità del sottoindice che si riferisce solo agli acquisti più frequenti delle famiglie, il quale – malgrado l’innegabile rallentamento – si muove più velocemente anche dei prezzi core.

Rendimenti sotto controllo?
È vero, le banche centrali devono tener conto della stabilità finanziaria, della tenuta di governi e banche, e non solo. Solo qualche giorno fa l’ex presidente della Bce Mario Draghi, in un articolo sull’Economist ha spiegato che dal 2012 – quindi con il suo mandato – la Bce «ha sviluppato strumenti di politica [monetaria] che contengano indesiderate divergenze tra costi del credito di Paesi più forti e più deboli, e ha mostrato la sua determinazione a usarli. Questo ha permesso alle politiche fiscali nazionali, che svolgono un ruolo di stabilizzazione cruciale nella zona euro, di dare un andamento più regolare al ciclo economico». Ci si può chiedere allora se sia un caso che lo spread tra i rendimenti di tutti i titoli decennali della Bce e quelli con il rating AAA sia rimasto stabile durante tutta la fase di elevata inflazione o sia l’effetto di un uso flessibile dei reinvestimenti dei titoli acquistati con il piano pandemico Pepp.

Il rischio di una stretta più lunga
C’è un motivo se la Bce ha come obiettivo prioritario unico la stabilità dei prezzi per i consumatori. Quando l’inflazione è alta, mantenere tassi più bassi del dovuto, per tener conto di altri obiettivi – crescita, o stabilità finanziaria – significa alimentare il rischio che occorra, nel prossimo futuro, una politica monetaria più restrittiva di quella necessaria oggi, per un tempo più lungo, e con costi economici più elevati.
>Sono considerazioni che acquistano ancora più senso se si tiene conto che, da un certo punto di vista, ora è il momento giusto per tentare di incidere davvero sull’inflazione. La disoccupazione è ai minimi storici, una situazione che renderebbe difficile parlare di recessione anche di fronte a ritmi negativi di crescita (che, a livello di Unione monetaria, non si sono ancora verificati). Il resoconto della riunione di politica monetaria di luglio ha inoltre evidenziato che non mancano risparmi in eccesso, accumulati durante la pandemia, che possono quindi costituire un secondo importante “cuscinetto”.

Una valutazione complessa
Lo stesso resoconto testimonia però – se mai ce ne fosse bisogno – la complessità dell’analisi svolta dalla Bce prima di ogni decisione. Gli strumenti analitici a disposizione del consiglio direttivo sono molto più sofisticati di quelli a disposizione dell’osservatore esterno. Se però la decisione verrà – come molti analisti ammettono – da una mediazione “politica”, allora è opportuno che non venga interpretata come uno scontro tra “buoni” e “cattivi” o tra pragmatici e dottrinari. Una stretta incisiva non è necessariamente un male. Non quando l’inflazione è elevata.

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