La banca centrale potrebbe decidere una stretta da 0,75 punti, portando il tasso di riferimento all’1,25% dallo zero di inizio luglio
Quanto? 50? 75%? Gli analisti ormai sembrano convinti che la Banca centrale europea si mostrerà molto aggressiva, nella riunione di settembre, e alzerà i tassi di 75 punti base, portando il tasso di riferimento all’1,25%, da quota 0,50%. Non c’è certezza: il capo economista Philip Lane è apparso meno convinto, ma l’approccio della presidente Christine Lagarde è molto politico e punta molto sul compromesso tra falchi – ai quali ha ridato “cittadinanza” dopo la stagione Draghi – e colombe. I primi, questa volta, potrebbero prevalere, dopo il via libera concesso allo scudo anti-spread.
Il nodo dell’euro
Ha senso un rialzo aggressivo? La questione è apertissima. L’inflazione ha davvero raggiunto livelli piuttosto elevati: 9,1% ad agosto con una core inflation (che nella misura preferita dalla Bce esclude energia e alimentari non trattati) al 5,5%; e in Eurolandia, al contrario di quanto avviene negli Usa, la core inflation tende a seguire l’inflazione complessiva. Soprattutto spaventa l’andamento del cambio effettivo. In flessione sostanzialmente da inizio anno – quando era ancora al di sopra della media di lungo periodo – è ora scivolato fino a un minimo dal dicembre 2015 a 92,95, con un calo complessivo del 4,2%. Questa flessione è, indubbiamente, una fonte di inflazione da non sottovalutare.
Rendimenti in rialzo (ma non troppo)
Sarebbe però un errore pensare che un rialzo dei tassi possa portare automaticamente a una frenata della flessione della valuta. Molti altri fattori incidono sul livello del cambio, a cominciare dall’orientamento delle altre banche centrali. La Fed, più aggressiva, è più avanti della Bce e non avrebbe senso “rincorrerla”. Se la Bce aumenterà i tassi non sarà principalmente per il cambio: sarebbe un errore grossolano. I tassi a breve hanno colto piuttosto bene le intenzioni della Bce. La curva è in buona parte superiore a quella di fine 2013, prima dell’accelerazione della fase espansiva. È vero, rendimenti a tre mesi allo 0,06% e a sei mesi allo 0,47% non sono ancora coerenti con tassi Bce a 14 giorni allo 0,50% (destinati in ogni caso a salire), ma nessuno discute della necessità di una stretta, quanto delle sue dimensioni.
Prestiti ancora in crescita
Analogamente segnala la necessità di continuare la stretta l’andamento dei prestiti, che a luglio hanno proseguito, pur rallentando – ma i dati Bce non sono destagionalizzati – malgrado l’aumento del costo del credito, in Eurolandia nel suo complesso e in tutti i principali paesi. La normalizzazione non ha ancora percorso tutta la catena di trasmissione della politica monetaria, e i tassi reali – calcolati in base alle aspettative di inflazione di lungo periodo – sono ancora negativi. Un nuovo elemento a favore di un approccio più intenso.
Aspettative di lungo periodo in linea con l’obiettivo
Le aspettative di inflazione di mercato hanno invece ben registrato le intenzioni della Banca centrale europe e dopo aver raggiunto tra fine aprile e inizio maggio un massimo al 2,49% sono rapidamente scese intorno al 2,1-2,15%, non lontane quindi dall’obiettivo. La Bce quindi conserva piena credibilità e i mercati non dubitano dele sue intenzioni. È proprio l’assenza di segnali di surriscaldamento nel medio-lungo periodo ad alimentare qualche dubbio su un eventuale rialzo aggressivo da parte della Bce.
Il mistero della curva di Phillips
La Banca centrale – come del resto la Fed – ha fatto una scelta precisa: ha abbandonato la forward guidance, con il rischio di aumentare l’incertezza, e ha adottato un approccio “passo dopo passo”, in base ai dati in arrivo. Ha rinunciato a incidere sull’inflazione attraverso le aspettative, che pure sono il principale elemento della dinamica dei prezzi, puntando a colpire l’economia reale. Ha insomma deciso che una Curva di Phillips – un rapporto stretto da disoccupazione e inflazione – esiste e va sfruttata. Sulla base dei dati – e costruendo una curva molto rudimentale – si potrebbe pensare che occorra portare la disoccupazione sopra il 7,5% per ottenere un’inflazione del due per cento.
È una scommessa non da poco, e non solo per il fatto che la relazione tra disoccupazione e inflazione è molto variabile nel tempo. La curva di Phillips, nel lungo periodo, è piatta. Non mostra alcuna correlazione. Per alcuni economisti è la prova che non esiste, per altri è la prova che la politica monetaria funziona davvero bene: non c’è, analogamente, correlazione tra la temperatura di un ambiente riscaldato con un impianto con termostato -la sua curva è piatta – e la quantità di carburante usato, che varia in dipendenza della temperatura esterna.
La Bce ha scelto la seconda possibilità. Se si ricorda che i bilanci statali continuano a essere – giustamente – in deficit, la politica monetaria appare chiamata a uno sforzo notevole. L’approccio alternativo avrebbe consigliato un percorso diverso: il mantenimento di una forward guidance, con una indicazione abbastanza precisa del percorso – decisamente verso l’alto, ma con un ritmo graduale – dei tassi di interesse, in modo da plasmare meglio le aspettative (anche quelle a un anno che, per esempio, sono decisamente più “calde” di quelle di lungo periodo). Sono proprio le aspettative, soprattutto in una fase inflattiva con una componente importante sul lato dell’offerta, a essere l’elemento cruciale. Il rischio, altrimenti, è quello di frenare inutilmente l’economia.