Fonte: Corriere della Sera
di Antonio Polito
I Cinque Stelle sognano questo ritorno al passato come il futuro: l’utopia di un governo «etico» che insegna ai cittadini la strada verso il Benessere Collettivo
Un’irresistibile nostalgia del passato ha preso il governo del cambiamento.
Il fastidio che Salvini ha esternato per le file milanesi davanti a Starbucks, vero e proprio demone di una modernità cosmopolita, è pari solo al disprezzo con cui Di Maio giudica il lavoro domenicale nei centri commerciali. Frappuccino e outlet, insieme con Erasmus e Ryanair, sono stati tra i simboli dei millennials, la generazione nata a cavallo dei due secoli, educata a una nuova libertà dei consumi e dei costumi, che ha colonizzato e omologato le grandi capitali europee. Ma ora che Lucio Dalla non c’è più, basta con «Milano vicino all’Europa». Oggi il messaggio è: statevene a casa, benedetti ragazzi, fatevi il caffè con la moka e santificate il giorno di festa, come si faceva un tempo, quando non c’erano tutte queste distrazioni. In cambio ai nostri giovani si offrono corsi scolastici meno turbati da tutta la fastidiosa retorica sul merito e sulla competenza. Così il governo sta rinviando la riforma che faceva valere il test Invalsi e l’alternanza scuola-lavoro per l’ammissione all’esame di maturità.
Quando i nostri giovani faranno la fila per il sussidio – quando la faranno, perché la promessa di un reddito di cittadinanza uscirà abbastanza ammaccata dalle pieghe del bilancio – dovranno spenderlo nei giorni feriali e nel negozio sotto casa. Se tutto va male, in clima di mille proroghe, potrebbero tornare anche i “lavori socialmente utili”, dei quali ha parlato Di Maio: un’antica invenzione dei turbolenti anni ’80 a Napoli, diventata nel tempo una vera e propria scuola di disoccupazione a vita, pagata dallo Stato. Rischia comunque di essere una necessità per i ragazzi che dovessero perdere il lavoro a causa della chiusura domenicale dei negozi (si calcolano 40mila posti in meno).
Il troppo tempo libero della nostra gioventù, diciamoci la verità, giustificherebbe anche il ritorno della naja: farebbe bene a tutti un anno passato a imparare un po’ di disciplina e a farsi gavettoni. E infatti Salvini ci aveva anche pensato. L’esercito di leva potrebbe essere una forma di reddito di cittadinanza con le stellette. Ma per ora non si può fare: costerebbe troppo e servirebbe a nulla.
Più sbocchi occupazionali potrebbero esserci invece nel calcio, se solo le società condividessero la nostalgia del Capitano (sempre Salvini) per i tempi in cui gli stranieri erano massimo due per squadra. Il nostro campionato, con meno Ronaldo e più Zaza, tornerebbe il più bello del mondo, come ai tempi in cui le partite cominciavano tutte alle 15 e si sentivano alla radio.
Un più concreto ritorno al passato sarà in ogni caso la “controriforma” delle pensioni, detta anche smantellamento della Fornero, che per Salvini dovrebbe consentire di nuovo a chi ha 62 anni di età e 38 anni di anzianità, cioè agli occupati nelle fabbriche del Nord con una solida storia contributiva, di lasciare il lavoro come accadeva prima del collasso finanziario del 2011. Costerà certamente qualcosa alle casse dell’Inps, ma quando l’Istituto verrà liberato da Boeri non se ne accorgerà più nessuno. Allo stesso modo è stato annunciato il ritorno della Cassa integrazione, ammortizzatore sociale storico che non farà in tempo ad essere rottamato dal nuovo sussidio universale di disoccupazione per essere riesumato a vantaggio dei lavoratori delle imprese che muoiono.
Sono invece già tornate le Partecipazioni Statali. Un tempo avevano un ministero, che oggi possiamo dare per assorbito nel Mise di Di Maio. È da lì infatti che partono gli ordini all’industria pubblica. La costruzione del ponte di Genova non verrà infatti assegnata da Toninelli con una gara, come si fa in tutta Europa, ma con un affidamento diretto a Fincantieri, azienda che presenta l’indubbio vantaggio di essere pubblica, ma il grande svantaggio di costruire navi e non ponti. Però al ministro piace, e dunque avrà i lavori (se l’Europa consentirà una deroga alle leggi, e se supererà il Vietnam di ricorsi legali che l’aspetta). Un’altra cosa che piace al ministro è nazionalizzare le Autostrade, tornando a quando se ne occupava l’Anas, seppur tristemente nota per essere stata a lungo un disastro di inefficienza e un terreno di coltura della corruzione; e anche l’Alitalia, la cui leadership “deve tornare in mano al pubblico”, tanto il suo fallimento è costato così tanto al contribuente italiano che sarebbe un peccato smettere proprio ora. Non piacciono invece al ministro Di Maio le pubblicità che le imprese pubbliche fanno sui media: gli amministratori delegati riceveranno presto direttive, proprio come quando i ministri dicevano ai boiardi di Stato quali giornali (e quali partiti) finanziare.
Anche in tema di libertà di stampa ci sarà sicuramente una stretta, che qui si esagera. In un video su Facebook il solitamente silente Conte ha difeso dalle critiche dei giornali il suo concorso per una cattedra universitaria, cui ha poi rinunciato, parlando di “un esercizio di libertà di stampa inaccettabile”, anche se un giurista dovrebbe sapere che in una “società aperta” la libertà è tale proprio perché non è concessa, e dunque non ha bisogno di essere “accettata” dal potere politico per essere esercitata.
Tutta questa nostalgia del passato può avere talvolta effetti comici; ma va presa sul serio perché è molto moderna. Risponde appieno alla paura di una società che è stata disillusa dalla retorica del futuro, dalla promessa di uno scambio tra sacrifici e nuove opportunità, rivelatasi in Italia vuota e beffarda. È figlia della grande paura della competizione di una fetta del Paese che spera di potersi rifugiare nella protezione di un Leviatano pubblico, così forte da poter fare a meno di tutti, compresi gli altri Stati europei, arroccandosi intorno al suo debito e al suo stellone.
I Cinquestelle sognano questo ritorno al passato come il futuro: l’utopia di un governo “etico” che insegna ai cittadini la strada verso il Benessere Collettivo. I sovranisti lo scelgono invece con crudo realismo, perché concepiscono il futuro come il passato, e cercano nello scontro tra nazioni il riscatto della grande proletaria. Ma tutt’e due sono l’effetto, non la causa, di un malessere nazionale che spinge oggi la maggioranza degli italiani a sperare nel passato. Forse il problema più grande del nostro Paese.