
Voleva fare il Papa sino all’ultimo minuto, e l’ha fatto. Francesco a volte fu più apprezzato dai laici che dai credenti. L’elezione, la rivoluzione di linguaggio e di stile, la difesa degli ultimi, l’omelia durissima dopo il naufragio di Lampedusa: storia di un Papa progressista
«Buonasera».
La Chiesa ha una storia millenaria, che accelerò vorticosamente in cinque minuti: quelli tra le 20 e 22 e le 20 e 27 del 13 marzo 2013.Cinque minuti che, se non sconvolsero il mondo, certo lo avvertirono che stava accadendo qualcosa di nuovo. E non soltanto perché era appena stato eletto il primo Papa sudamericano, il primo Papa gesuita, il primo Papa a chiamarsi Francesco («Jorge Bergoglio es Francisco» titolò El Clarin, il più importante quotidiano argentino. «Argentino però modesto» titolò un giornale uruguaiano).
Francesco si affacciò alla loggia di San Pietro senza la mozzetta rossa, simbolo del potere dei predecessori. Con una croce semplice anziché preziosa. Non si definì Papa ma vescovo di Roma. Chiese ai fedeli di pregare per lui. Poi si inchinò alla folla.
La folla lo guardava, e ne fu commossa. Ma avrebbe dovuto guardare anche i cerimonieri; e se ne sarebbe inquietata. Perché fin dai primi passi Francesco ha provocato commozione e insieme sconcerto. Adesione e rigetto. Amore e ostilità, arrivato talora a degenerare nell’odio. Un sentimento mai sentito, visto, toccato in Vaticano nei confronti del Papa, come al tempo di Papa Francesco. Perché i progressisti forse non hanno amato Wojtyla; ma certo molti conservatori hanno odiato Bergoglio.
Si capì subito che sarebbe stato un Papa eccezionale; e questa sua grandiosa uscita di scena, il mattino di Pasquetta, dopo aver fatto in tempo a celebrare la Pasqua di resurrezione, lo conferma.
Bergoglio non ha innovato la dottrina; ma ha rivoluzionato il linguaggio, gli argomenti, lo stile del papato. Eppure, le stesse cose che piacevano al popolo infastidivano la Curia. Le vecchie scarpe ortopediche al posto di quelle rosse. La borsa portata da sé. L’utilitaria anziché la Papamobile o la Mercedes nera con cui il suo predecessore era arrivato alle Giornate della Gioventù di Colonia. Se Bergoglio andava a pagare il conto della stanza affittata a Roma, o a ritirare di persona gli occhiali da vista, le persone comuni se ne compiacevano, come a dire (o a illudersi): è uno di noi. Ma per gli uomini di Curia era un’inaccettabile deminutio del ruolo del Papa, quindi del loro. La scelta che parve insostenibile fu quella di non vivere nell’Appartamento, come viene chiamata la residenza all’ultimo piano delle logge di Raffaello, bensì a Santa Marta, cioè in un residence. Questo non solo faceva sembrare obsoleti e fuori luogo gli agi curiali – a cominciare dal leggendario attico del cardinale Bertone, ancora segretario di Stato -, ma faceva sentire un intero mondo inadeguato se non umiliato. E questo non riguardava soltanto monsignori, ma funzionari, aristocratici neri, banchieri dello Ior, giornalisti, gruppi di pressione, con terminali lontani dall’Italia, sino agli Stati Uniti. E se i cardinali nordamericani erano stati tra i grandi elettori di Bergoglio, fin dall’inizio molti se ne sentirono traditi.
Perché Bergoglio era dentro lo spirito del tempo: la rivolta contro l’establishment, le élites, il sistema. Una rivolta che porta con sé il rischio del populismo. Perché la stessa rivolta ha prodotto anche Trump, che rappresenta tutto quello che Bergoglio detestava: l’arroganza del potere e della ricchezza, la violenza del linguaggio, la mentalità neoimperialista. E ora che la sua voce si è spenta, sarà più difficile, se non sovrastare, resistere a quella di Trump.
All’inizio non l’hanno visto arrivare. Alla vigilia del Conclave del 2013, nei conciliaboli tra i presunti esperti il nome di Bergoglio veniva scartato. Il primo a pronunciarlo era stato nel Conclave del 2005 il cardinale Carlo Maria Martini, in alternativa al candidato dei conservatori, Joseph Ratzinger. Ne sarebbe derivato uno stallo, che avrebbe bloccato entrambi, a favore di un terzo nome. Ma Bergoglio rinunciò. Si disse che avesse avuto un cedimento emotivo di fronte al Cristo della Sistina, come a dire: «Domine, non sum dignus». In realtà, Bergoglio non aveva voluto essere la pietra d’inciampo di Ratzinger. E così aveva mantenuto le sue chances per un Conclave successivo. L’unico a prevedere davvero la sua elezione fu un giornalista italiano, Andrea Tornielli, poi chiamato da Francesco al suo fianco; mentre diventava prefetto per la comunicazione un altro giornalista, Paolo Ruffini.
Le prime uscite pubbliche di Francesco erano seguite da una folla commossa, spesso in lacrime. La semplicità, l’immediatezza, la difesa dei poveri, l’elogio dei semplici conquistarono fin dal principio. Però il Papa chiarì quasi subito che non era disposto a dispensare solo carezze.
La sera del 22 giugno, nell’Aula Paolo VI, era stato organizzato un “Grande concerto di musica classica per l’Anno della Fede”. I politici avevano preso posto in seconda fila, in modo da essere inquadrati dalle telecamere subito dietro la poltrona riservata al Pontefice. Ma quella poltrona restò vuota. «Non sono un principe rinascimentale» disse Bergoglio. Per il concerto non aveva tempo. Su Twitter fu meno diretto, ma altrettanto efficace: «Non possiamo essere indifferenti davanti a uno che soffre, a uno che è triste».
Il 4 ottobre 2013 andò ad Assisi. Era la prima volta che scendeva sulla tomba del santo di cui portava il nome, e si commosse. Fu anche la prima volta in cui molti poterono vedere il Papa da vicino; non soltanto il custode del sacro convento, Mauro Gambetti, e il portavoce, Enzo Fortunato, non a caso poi chiamati entrambi a San Pietro. Bergoglio parlava piano, a bassa voce, ma in modo netto, con il tono di chi è abituato a comandare. Non era un carismatico, o comunque non come Wojtyla, il cui carisma si poteva quasi toccare. Nel dialogo con la gente era esplosivo e sapiente, all’americana: tendeva il dito, indicava qualcuno nella folla, gli lasciava intendere che si stava rivolgendo proprio a lui, e gli sorrideva. Ma nel privato poteva essere duro, secco, non necessariamente amabile. E non solo nel privato.
Quel giorno tutti si attendevano parole più o meno di circostanza su san Francesco. Ma il giorno prima c’era stato il naufragio di Lampedusa: 368 morti. E il Papa pronunciò un’omelia durissima, che a molti parve quasi urticante. In realtà, stava dicendo le cose che san Francesco avrebbe probabilmente detto al suo posto. Quello che era accaduto, ammonì Bergoglio, era anche colpa nostra, del nostro egoismo, del rifiuto di accogliere i migranti, del disinteresse verso i poveri del mondo.
Lì si comprese che il segno del papato di Francesco sarebbe stato la difesa dei miseri, dei deboli, degli esclusi, e nello stesso tempo la critica dell’Occidente; e non solo dei governi, ma di tutti noi.
Questo piacque meno ai fedeli. Da allora la sintonia dell’opinione pubblica con Francesco vacillò.Eppure, cos’altro avrebbe potuto dire un nipote di immigrati, l’arcivescovo che a Buenos Aires andava in metropolitana nelle “villas miseria”?
Paradossalmente, il Papa era a volte più apprezzato dai laici che dai credenti. E a lui questo non pareva dispiacere, se è vero che scelse come interlocutore prediletto un laico dichiarato come Eugenio Scalfari. Anche se il suo ultimo messaggio politico l’ha affidato in una lettera al direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana: «Disarmate la Terra». Sempre al Corriere disse che Putin aveva avvertito «l’abbaiare della Nato» alle sue frontiere: una frase citata in tutto il mondo.
Qualcuno sosteneva che il Papa fosse peronista, o populista, o addirittura comunista. Lui giustamente rifiutava di essere etichettato con categorie che definiva “da entomologo”. Catalogare un Papa con i parametri della politica, fece notare, sarebbe come dire: “Questo è un insetto socialdemocratico” (Bergoglio aveva un raffinato senso dell’umorismo, non da tutti compreso. Se è per questo, una volta in Piemonte si mise a parlare il dialetto della sua infanzia, in una regione dove ormai il dialetto non si parla più).
Altri non gli perdonarono le parole di apertura e comprensione, come quando disse: «Chi sono io per giudicare un omosessuale che cerca Dio?». Altri ancora pensarono che fosse troppo pessimista, quando cominciò a parlare di «terza guerra mondiale a pezzi»; poi vennero l’aggressione di Putin all’Ucraina e il 7 ottobre.
Se certo un papato non può essere letto con le categorie della politica, comunque non c’è dubbio che Bergoglio sia stato un Papa progressista. Anche per questo si è cercato di porlo in contrasto con Ratzinger, almeno fino a quando il Papa emerito è stato in vita. Qualche segnale di freddezza tra i due c’è stato. Ma tra i meriti di Francesco c’è anche quello di aver gestito con grande sensibilità una situazione inedita, con cui nessuno dei suoi predecessori si era mai confrontato: convivere con un predecessore dimissionario.
Le riforme, quelle no, non le ha fatte. Aveva pensato, se non di consentire ai preti di sposarsi, di consentire agli sposati di fare i preti; ma si fermò, quando si rese conto che, qualunque direzione avesse imboccato, avrebbe rischiato, se non uno scisma, una grave spaccatura, anzi due: quella dei conservatori, o quella dei progressisti, in particolare i cardinali tedeschi.
A volte il suo parlare duro gli ha provocato critiche, non sempre irragionevoli. Dopo la strage islamista nella redazione di Charlie Hebdo, disse: «Se insulti mia mamma, ti può arrivare un pugno». Fu coniata allora la definizione di “papagno”. Francesco ne diede parecchi, qualcuno certo meritato. Con lui il peso della Chiesa italiana è diminuito, e non solo perché per la prima volta l’arcivescovo di Milano o il patriarca di Venezia non sono cardinali. Eppure non è impossibile che nel Conclave si affacci ora il nome di un cardinale italiano: in particolare Pietro Parolin, che Francesco ha voluto segretario di Stato, e Matteo Zuppi, da lui nominato capo dei vescovi.
Ma non è questo il momento di pensare alla successione. Nei lunghi giorni trascorsi al Gemelli tra la vita e la morte un po’ tutti, tranne le eccezioni che confermano la regola, si sono stretti attorno al Papa malato. Anche chi talora ne è rimasto deluso ha ritrovato la sintonia spirituale e sentimentale che aveva sentito con lui nei giorni della sua elezione. Lui voleva tornare in piazza San Pietro, e ci è riuscito. Voleva fare il Papa sino all’ultimo minuto, e l’ha fatto. Ci eravamo illusi che sarebbe rimasto ancora un poco con noi. Per questo oggi ci sentiamo tutti smarriti. Pericolanti sulla soglia dello spavento supremo. Privati di una persona cara, di famiglia.
Fin da quando, la sera del 13 marzo di dodici anni fa, si era affacciato alla loggia di San Pietro, Francesco era apparso un Papa straordinario. Ora possiamo concludere che lo è stato. Passerà alla storia. Resterà. Nulla, nella vicenda secolare della Chiesa e nelle nostre vite, sarà più come prima. Dipende anche da noi se la morte di Francesco renderà «più vicino l’avvento dell’Anticristo», come nel Nome della Rosa paventa frate Guglielmo dopo l’incendio della grande biblioteca, o se invece i semi che Francesco ha piantato daranno fiori e frutti per l’intera umanità.