È lecito porsi una domanda: ha ancora senso oggi la presenza di due camere con gli stessi poteri e la stessa base elettorale, ma con dei numeri così ridotti da rendere difficile, specie al Senato, lo svolgimento delle medesime funzioni?
Caro direttore, il metodo di approvazione della riforma delle pensioni in Francia ci offre lo spunto per una nuova riflessione sul tema del ricorso ai decreti-legge in Italia, dove ormai i casi «straordinari» di necessità e urgenza sembrano da molto tempo essersi trasformati in «ordinari», e, più in generale, sulle prospettive della nostra democrazia parlamentare.
Da un lato è doveroso domandarsi, come ha fatto il professor Cassese proprio da queste colonne, come si possa restituire al parlamento l’esercizio effettivo del potere legislativo, sempre più assorbito dall’influenza dell’esecutivo. Dall’altro ha senso forse anche chiedersi, specie dopo la quantità, le dimensioni e le modalità di esame parlamentare dei decreti che abbiamo visto negli ultimi anni, se vi siano o meno, al di là di possibili interventi della Consulta, le condizioni per poter correggere a valle alcune prassi che si sono andate consolidando o se non vi sia la necessità di realizzare un salto di prospettiva che superi un dibattito politico ormai piuttosto sterile su questo tema.
Premettiamo che non ci sembra realistico, visti i precedenti e le condizioni date, e al netto dei migliori propositi sul contenimento della decretazione d’urgenza, immaginare che un governo, di qualunque colore, possa riuscire a rinunciare oltre una certa misura alla corsia preferenziale del decreto-legge, che gli offre non soltanto tempi di esame certi, ma anche, a differenza dei disegni di legge collegati alla manovra economica, l’incredibile vantaggio dell’entrata in vigore immediata, oltre a quello non trascurabile di poter porre facilmente la questione di fiducia.
Un esempio concreto di prassi che si sono consolidate è certamente quella del «senso unico alternato» con cui quasi tutti i decreti-legge abitualmente marciano in parlamento. Funziona così: l’esame effettivo di questi provvedimenti, nei fatti, avviene solo nella prima delle due camere che affronta il testo, la quale lo trattiene per buona parte dei sessanta giorni necessari alla conversione, lo approfondisce, lo emenda, lo approva e poi lo invia all’altra camera, che a sua volta svolge in tempi stretti tutti i passaggi formali della sede referente, ma, di fatto, lo ratifica senza modificarlo, spesso previa posizione della questione di fiducia in Assemblea da parte del governo.
Secondo i dati dell’Osservatorio legislativo e parlamentare della Camera dei deputati, su 104 decreti convertiti nell’ultima legislatura ben 99 sono stati esaminati in questo modo e su 58 di questi è stata posta la fiducia almeno in uno dei due rami (a quest’ultimo dato aggiungiamo che se il governo Draghi non avesse potuto contare su una maggioranza strabordante alla Camera e al Senato le questioni di fiducia probabilmente sarebbero state di più).
Questa prassi del «senso unico alternato» è progressivamente passata da eccezione a regola nell’ultimo decennio, sotto governi di ogni colore e con ogni geometria possibile di maggioranze parlamentari. Sembra piuttosto difficile cambiarla almeno fintantoché per qualunque governo sarà più comodo trattare col parlamento in una sola sede anziché in due. E l’idea di correggerla con l’ampliamento dei tempi di conversione da sessanta a novanta giorni, per riservare i trenta giorni aggiuntivi alla eventuale seconda lettura, comporterebbe il serio rischio di tradursi in un’ulteriore spinta alla produzione per la già attivissima «fabbrica dei decreti».
Il cambio di prospettiva potrebbe, dunque, essere quello di prendere atto della difficoltà di modificare certe prassi e trarre spunto proprio da queste per andare ad affrontare in termini più strutturali il problema vero, quello della debolezza del nostro parlamento. In un confronto sulle riforme costituzionali che ogni tanto sembra poter decollare tra mille difficoltà, ma che spesso finisce per schiantarsi sul muro-contro-muro che quotidianamente si leva tra opposte fazioni politiche, è lecito porsi una domanda: ha ancora senso oggi la presenza di due camere con gli stessi poteri e la stessa base elettorale, ma con dei numeri così ridotti da rendere difficile, specie al Senato, lo svolgimento delle medesime funzioni?
Inoltre, guardando al caso dei decreti-legge e valutando il fatto che da anni governi di segno diverso scelgono ormai sistematicamente e pacificamente di avere ogni volta come interlocutore una sola delle due camere per l’esame di quello che è il principale strumento legislativo e di azione di governo, viene da chiedersi: perché non disegnare una sola camera da seicento o settecento componenti, individuando i debiti contrappesi (come l’obbligo di svolgere due letture per varare una legge, procedure rafforzate per le modifiche costituzionali, maggiori poteri e strumenti di controllo e altro ancora), in luogo delle due attuali, da quattrocento e duecento seggi?
L’ipotesi di un’unica assemblea permette di immaginare un parlamento certamente più forte, rappresentativo e autorevole di quanto non sia ora. E poiché, secondo molti, la nostra democrazia parlamentare da tempo zoppica vistosamente, l’idea di riformarla organicamente in questa direzione, specie dopo la riduzione scriteriata del numero dei parlamentari che l’ha ulteriormente indebolita, potrebbe rivelarsi un vantaggio per tutti.