Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Ma la «lega delle democrazie» — una metafora per indicare una piena e recuperata leadership americana sull’insieme dei Paesi democratici — auspicata da Biden per contrastare le potenze autoritarie, non è in vista
Un successo simbolico e tante difficoltà pratiche. Sul piano simbolico il G7 è stato un successo: chiusa l’era Trump, Occidente ricomincia ad essere una parola dotata di significato. Poi ci sono le difficoltà pratiche. Gli europei non sono al momento disposti a sposare la linea dura degli Usa nei confronti della Cina, la Germania non rinuncia a North Stream 2 nonostante il rischio di favorire la dipendenza energetica dell’Europa dalla Russia, il contenzioso commerciale è ora affrontato con buona volontà e spirito costruttivo ma c’è molto lavoro da fare. Rilancio del multilateralismo certamente, convergenze fra le due sponde dell’Atlantico su un ventaglio di temi rilevanti, sicuro. Ma la «lega delle democrazie» — una metafora per indicare una piena e recuperata leadership americana sull’insieme dei Paesi democratici — auspicata da Biden per contrastare le potenze autoritarie, non è in vista.
Per varie ragioni. Ma soprattutto perché nel mondo multipolare in cui siamo entrati, le minacce geopolitiche non sono affatto le stesse per tutte le democrazie. Non è più l’epoca in cui Unione Sovietica e comunismo minacciavano l’Occidente tutto intero e le democrazie avevano un comune interesse a contrastare il nemico. Oggi minacce e percezioni delle minacce sono differenti, le priorità in materia di sicurezza cambiano da Paese a Paese.
La competizione fra Stati Uniti e Cina è inevitabile ed è comprensibile che democratici e repubblicani, divisi su tutto, siano concordi nel favorire la linea dura con Pechino. Ma è anche comprensibile, ad esempio, che la Polonia o i Paesi baltici temano molto di più la Russia della Cina. Così come sono chiare le ragioni per le quali gli europei guardino oggi più ai vantaggi del business nei rapporti con Pechino che ai rischi per la sicurezza. Forse cambieranno idea in futuro, si allineeranno agli Stati Uniti, poniamo, se decollerà davvero il grande piano di investimenti in infrastrutture immaginato da Biden come risposta alla politica cinese (la nuova via della Seta). Ma per ora le cose stanno così. In ogni caso, l’espressione «nuova guerra fredda» non è forse la più appropriata per indicare la competizione cino-americana: non ci sono due blocchi compatti l’uno contro l’altro.
Nel sistema multipolare attuale le minacce sono multiple e frastagliate. Come dimostra il caso italiano. Nell’incontro fra Draghi e Biden ai margini del G7 si è parlato di vari argomenti e anche, a quel che risulta, di Libia. Per la sicurezza nazionale italiana, la Libia è il primo dei nostri dossier. Il timore è che gli Stati Uniti mostrino piena comprensione per le preoccupazioni italiane ma non una vera disponibilità a un rinnovato impegno. Ma dire Libia significa dire (giusto a proposito di regimi autoritari) Russia e Turchia, le potenze che, approfittando della latitanza statunitense degli ultimi anni, si sono insediate in quel Paese e stanno consolidando le loro posizioni nei gangli più vitali della Cirenaica e della Tripolitania. È assai probabile che la loro presenza — talvolta in competizione, talvolta in collusione — e la loro influenza nel mar Mediterraneo diventino sempre più marcate nei prossimi anni. Ce n’è abbastanza per sollecitare l’impegno americano. Ma ci sono due ostacoli. Il primo è che gli Stati Uniti (in una linea di continuità, da Obama a Trump, a Biden) non sembrano disposti a tornare in forze, con funzioni di deterrenza, nel Mediterraneo. Anche il contrasto alla Russia, nella visione di Biden, sembra avere di mira più le aggressioni informatiche alle democrazie nonché gli equilibri politico-militari fra Nato e Russia in Europa che non l’attivismo russo in Medio Oriente e nel Mediterraneo. Dovrebbero essere forse italiani e francesi ad occuparsi di quanto accade in questo quadrante geo-politico? Bisogna essere realisti: l’Italia non dispone di un «fronte interno» in grado di reggere in presenza di crescenti tensioni e rischi per la sicurezza nel Mediterraneo. Se non è l’America ad occuparsene….
Il secondo ostacolo si chiama Turchia. Biden, a differenza di Trump, ha condannato la repressione interna praticata dal dittatore turco Erdogan. Ma il caso della Turchia, membro sempre più anomalo della Nato, resta al momento intrattabile. E rischia diventarlo sempre più. È vero che l’economia turca oggi va molto male ma ciò non significa che l’era Erdogan sia al tramonto. Esistono abbondanti prove storiche che dicono che i dittatori, se controllano tutte le leve del potere, sono in grado di durare anche se l’economia del loro Paese va a rotoli. Meglio partire dal presupposto che le ambizioni neo-ottomane della Turchia non siano un fuoco di paglia, siano in grado di influenzare il futuro del Mediterraneo e quindi anche dell’Europa meridionale. Il duro confronto fra il presidente francese Macron ed Erdogan di qualche mese fa — ricordiamo — aveva anche un importante risvolto di politica interna francese, riguardava i finanziamenti turchi a moschee e movimenti islamici in Francia. In vari Paesi europei potrebbero nascere in futuro, condizionandone la politica estera, gruppi di pressione filo-turchi. Il disegno neo-ottomano potrebbe servirsi, come in parte già oggi avviene, di una combinazione di uso della forza militare, penetrazione economica e capacità di essere guida e referente — come è stato per secoli — per una parte dell’islam sunnita. Questo non sarebbe un argomento da nascondere fra le varie e eventuali in una riunione della ipotizzata Lega delle democrazie.