19 Settembre 2024

Fonte: La Stampa

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di Alberto Mattioli

Il Teatro Regio di Torino domani apre la sua stagione con l’opera che proprio qui debutto 120 anni fa

Il Caffè Momus esisteva davvero. Ma non dove lo collocano Giacosa & Illica nel secondo atto di Bohème, sulla rive gauche, nel quartiere Latino all’incrocio delle vie Mazzarino, Delfino e Vecchia Commedia, cioè l’attuale animatissimo Carrefour de Buci. Stando a un acquerello del 1849, l’indirizzo del Momus «vero» era il 17 di rue des Prêtres Saint-Germain-l’Auxerrois, su un lato dell’omonima chiesa, la parrocchia dei re di Francia. Di fronte al Louvre, dunque sulla riva destra. Disponeva di cinque tavoli da biliardo e sappiamo che era frequentato da aspiranti artisti e letterari, insomma da bohémiens, fra i quali Courbet.
La Bohème di Puccini, che festeggia 120 anni (prima assoluta al Regio di Torino, il 1° febbraio 1896), è anche una straordinaria guida turistico-operistica di Parigi. La fonte del soggetto è una e trina, un triplo Henri Murger: prima il feuilleton Scène de la Bohème, apparso sul giornale Le corsaire Satan dal 1845 al ’48, poi la «pièce melée de chants» La vie de Bohème scritta assieme a Théodore Barrère e rappresentata con grande successo il 22 novembre 1849 al Théâtre des Variétés alla presenza del «Prince-Président» Luigi Napoleone, e infine il romanzo Scène de la vie de Bohème, pubblicato nel 1851 e tradotto in italiano da Sonzogno nel ’72. I temibili fratelli Goncourt ci vedevano «l’irruzione del socialismo nella letteratura», forse esagerando (però in Murger, e anche nella Bohème di Leoncavallo, c’è una carica di denuncia sociale che manca completamente in Puccini); di certo, vi entrava il realismo.
Puccini non è un operista «verista», ammesso che un’opera «verista» esista davvero. Però il libretto della sua Bohème è molto attento nel descrivere ambienti e situazioni parigini. Non sappiamo dove siano collocate con precisione le soffitte dei quadri primo e quarto, anche se di certo sono un po’ in alto – Montmartre? -, altrimenti Rodolfo, guardando fuori dalla finestra, non potrebbe vedere nei cieli bigi fumar dai mille comignoli Parigi. Ma il terz’atto è precisissimo. La barriera d’Enfer, «dell’Inferno», era una delle cinquantasette porte che si aprivano nel muro daziario realizzato da Luigi XVI fra il 1784 e il 1791. La piazza esiste ancora e nel 1879 fu ribattezzata, con una voluta e forse ironica assonanza, Denfert (senza apostrofo)-Rochereau, in onore del colonnello che nove anni prima aveva difeso Belfort contro i prussiani. Se ci si va, si scopre che i due casotti del dazio sono ancora lì: uno è un ufficio postale. Manca solo Mimì venuta a cercare Marcello.
Già, ma i personaggi? Quelli di Murger, specie la commedia, erano testi «à clef». Marcello è un ritratto satirico dello scrittore Jules Champfleury, mentre un certo Alexandre Schanne, pittore e musicista, pubblicò un’autobiografia dal titolo significativo: Mémoires de Schaunard. Quanto alla Mimì di Puccini, è la fusione di due personaggi di Murger, appunto Mimì e Francine, a sua volta esemplificata su una certa Lucille morta di tisi alla Pitié a 24 anni.
Dopo il «dove» e il «chi», il «quando». Il libretto è collocato nel «1830 circa» (per inciso, le Bohème «tradizionali», «come le voleva Puccini», «fedeli» e altre scemenze del genere non lo sono affatto, perché spostano sempre avanti la vicenda, nel Secondo Impero o addirittura nella Terza Repubblica). Ma qui Giacosa & Illica sbagliarono un dettaglio. Siamo sì sotto Luigi Filippo, come da scambi di battute del primo atto («Sei sordo? Sei lippo? / Quest’uomo chi è?» / «Luigi Filippo. / M’inchino al mio Re»), che fu «Re dei francesi» appunto dal 1830 al ’48. Però il «bal Mabille» frequentato dal padrone di casa Benoît per trovare donnine compiacenti aprì solo nel 1840.
Nella sua partitura Puccini non mise nulla né d’epoca né di francese, e nemmeno di parigino. Eppure, la sua descrizione della città e della sua atmosfera è perfetta. Nessuno può immaginare un’uggiosa alba invernale a Parigi senza avere nelle orecchie la prodigiosa descrizione impressionistica che apre il terz’atto, quel nulla illividito raccontato dalle vietatissime (in Conservatorio) «quinte vuote». Qui Puccini, come tutti gli artisti sommi, inventa il vero. Dopo Bohème, non potremo più «pensare» Parigi se non attraverso le sue note, esattamente come succede con le parole di Balzac o gli scatti di Doisneau. Non è più Puccini che racconta Parigi. Ma è Parigi che diventa come Puccini l’ha raccontata, per sempre.

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