Sulla cartina del nostro continente le democrazie liberali e più agiate si trovino appunto tutte sul versante occidentale e quelle più problematiche e spesso al limite della democratura risiedano tutte su quello orientale

Un’immagine delle recenti elezioni tedesche è destinata a restarci negli occhi come un monito: la mappa della Germania spaccata a metà tra Cdu e AfD, a Ovest una democrazia matura, a Est una riunificazione incompiuta. La forza icastica di quella frattura ha interpellato tutti noi europei nelle ore del vertice di Londra, con le minacce alla sicurezza comune in cima ai dossier diplomatici. Perché basta allargare l’inquadratura per verificare come anche sulla cartina del nostro continente le democrazie liberali e più agiate si trovino appunto tutte sul versante occidentale e quelle più problematiche e spesso al limite della democratura risiedano tutte su quello orientale di una specie di meridiano geopolitico. Come se Muro e cortina di ferro non fossero mai caduti davvero.
È questo il tallone d’Achille della costruzione europea, assai esposta all’influenza di Mosca nelle sue componenti più fragili: una vasta fascia di territori che, un tempo satelliti del potere sovietico e poi entrati troppo in fretta nella Ue, ricadono adesso in pieno nelle mire di influenza neoimperialista di Vladimir Putin. Il trumpismo enfatizza i fattori di rischio. Non si tratta soltanto di guardare all’assai citata Ungheria di Orban: un archetipo, con la sua democrazia illiberale, la sottomissione della magistratura e dei media, una strenua vicinanza alla Russia che s’è di nuovo concretizzata in minacce di veto contro le iniziative dell’Unione a favore di Kiev. Si tratta della Slovacchia di Robert Fico, il premier ultranazionalista che lo scorso dicembre è andato a Mosca a offrire i propri servigi in barba a Bruxelles. Si tratta, adesso, soprattutto della Romania: sede di due basi Nato, il Paese affacciato sulla polveriera russo-ucraina è sottoposto a tali scorribande di Mosca nei suoi processi elettorali da generare uno scontro incertissimo tra europeisti e sovranisti, sfociato per ora nell’incriminazione del candidato filorusso Georgescu per finanziamenti sospetti e, dall’altra parte, in moti di piazza sempre più accesi in suo appoggio (un appoggio condiviso da Musk e Vance in America). Nell’elenco dei sovranisti ma non dei filorussi, per storica avversione a Mosca, figurerebbe anche la Polonia se le ultime elezioni non avessero riportato al potere il liberale Tusk a scapito dell’estrema destra. Fuori dalla Ue ma a due passi da noi, è infine altissima la temperatura nella Serbia retta dal putiniano Vucic: la popolazione invoca da mesi riforme e libertà nell’assoluta indifferenza della politica europea.
Perché il punto sta proprio qui: non è solo questione di armi ma di anime. C’è sicuramente da rallegrarsi se, visto il clamoroso rovesciamento di alleanze intrapreso da Trump a scapito di decenni di atlantismo e l’umiliazione inflitta a Zelensky, le nazioni europee più forti e sagge scelgono infine di imboccare un percorso di difesa condiviso: addirittura riportando l’Inghilterra nell’alveo comunitario, come dimostra l’attivismo del premier britannico Starmer, che al summit euroatlantico di Londra ha parlato di «sfida generazionale per la sicurezza dell’Europa», non solo dell’Ucraina, rendendo appieno la dimensione della prova.
Ed è normale che questo percorso non possa coinvolgere nell’immediato tutti i 27 membri dell’Unione, pena il velleitarismo. I tempi non sono brevi, purtroppo. E i piani di pace di cui si discute, senza deterrenza, sono solo buone intenzioni. Giustamente Maurizio Ferrera su queste colonne rievocava il vecchio trattato istitutivo della Comunità europea di difesa del 1952, poi sospeso sine die per la ritrosia dei francesi, quale possibile base di partenza per un consenso diffuso sul tema.
A guardar bene, tuttavia, difesa militare e integrazione politico-economica non dovrebbero mai essere troppo distanti. Se oggi abbiamo abbozzato un formato geopolitico come «Weimar+» (Francia, Germania e Polonia, con Italia, Spagna e Regno Unito), è perché Francia e Germania già dal 1991 misero in piedi il Triangolo di Weimar con la Polonia, allo scopo di aiutarla nell’uscita dal comunismo. Il soft power, nonostante le burrasche di questi giorni, è importante quasi quanto l’hard power. Ad esempio, non aveva torto John Bolton, il consigliere per la sicurezza licenziato da Trump nel 2019, dicendo al nostro Giuseppe Sarcina che un’estorsione americana sulle terre rare spingerebbe gli ucraini delusi verso la Russia.
Il consenso è dunque decisivo. E un’Europa che oggi si scopre più sola non può certo concederlo ai russi sul proprio fronte orientale. Non si tratta di assecondare la megalomania di Orban («credevamo che l’Europa fosse il nostro futuro, oggi crediamo di essere il futuro dell’Europa»). Si tratta di capire quanto di ragionevole ci sia in quei deliri. Di prosciugare l’acqua dentro cui nuota il sovranismo nei Paesi ex comunisti. Non si tratta di riproporre con arroganza l’imitazione dei nostri valori liberali, come incautamente facemmo allargando l’Unione a Est. Si tratta di capire perché molti sostenitori di Fidesz, il partito anticomunista e ultraconservatore di Orban, abbiano un’opinione favorevole di Janos Kadar, leader comunista del paese dal 1956 al 1988: il gusto alla libertà non può essere un’operazione neocoloniale. E nessuno immagina neppure una guerriglia di ingerenza come quella animata da Putin fra noi, con suoi agenti di influenza camuffati da leader politici. Ma incoraggiare autori e istituzioni, intellettuali e opinionisti non ostili all’Occidente, ad esempio negli scenari contesi di Serbia, Slovacchia o Romania, diffondervi una vulgata di liberi europei, non è imporre l’ortodossia occidentale, è aprire le porte soprattutto alle nuove generazioni meno condizionate dall’eredità del totalitarismo. Il successo di Alternative fur Deutschland nell’Est tedesco non è dipeso dalla rumorosa invadenza di Musk: Alice Weidel era quotata al 20% già prima che il padrone di X le si schierasse accanto, ha preso il 20% dopo, alle urne. Quei voti non vengono dai post alla chetamina, sono frutto del disagio che l’estrema destra tedesca ha saputo cogliere (e cavalcare) in un Paese dove, tra residenti e irregolari, gli stranieri sono più di uno su cinque e commettono il 40% dei reati. Capire certi bisogni e certi dolori è il primo passo per incalzare gli estremisti e ricucire le nostre mappe strappate, in Germania come in Europa.

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