22 Novembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Luigi Ippolito

Due i nodi del contendere con Bruxelles: i diritti di pesca e gli aiuti di Stato. In difficoltà per la gestione del virus, Johnson ha bisogno di un successo politico


Il nodo, come sempre, è l’Irlanda del Nord. L’Unione europea ha lanciato un’azione legale contro Londra perché il governo britannico si è di fatto rimangiato gli accordi sottoscritti l’anno scorso con Bruxelles, che miravano a impedire il ritorno di un confine fisico tra le due Irlande dopo la Brexit. Questo accordo di recesso ha regolato l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue lo scorso 31 gennaio e si basa su tre pilastri: la garanzia dei diritti dei cittadini europei, il «conto del divorzio» che Londra dovrà saldare e, per l’appunto, il «protocollo irlandese ». Quegli accordi, che hanno valore di trattato internazionale, stabilivano che l’Irlanda del Nord sarebbe rimasta di fatto nel mercato unico e nell’unione doganale europea: quindi, avrebbe avuto uno status diverso dal resto della Gran Bretagna. Ora Boris Johnson si è reso conto di aver firmato un patto che in pratica spezza l’unità del Regno Unito e introduce un «confine» nel mare d’Irlanda, perché le merci che vanno da Londra e Belfast dovranno essere sottoposte a controlli doganali e magari anche a dazi. Una cosa ritenuta ora inaccettabile dai conservatori al governo: dunque Johnson martedì ha fatto approvare a Westminster una legge che dichiara nulli quegli accordi con Bruxelles. Una mossa che lo stesso esecutivo britannico ha ammesso essere una violazione del diritto internazionale ma che giustificano con la necessità di mantenere l’integrità del loro mercato interno.
La reazione dell’Ue era inevitabile. Bruxelles aveva intimato a Londra di ritirare la legge entro il 30 settembre, questo non è avvenuto e quindi è scattata la procedura legale. I britannici minimizzano, facendo notare che l’Ue lancia spesso procedure di infrazione: era praticamente un atto dovuto. Il punto ora è capire le conseguenze sui negoziati in corso per definire la fase 2 della Brexit, ossia i rapporti fra Gran Bretagna ed Europa dopo la scadenza dell’attuale periodo di transizione (il 31 dicembre) che al momento ha lasciato tutto inalterato. Questi negoziati si trascinavano da mesi e c’è chi ha letto la mossa di Johnson come un tentativo di far saltare i colloqui e andare a fine anno a un «no deal», una rottura netta con la Ue. In realtà negli ultimi giorni si sono moltiplicati i segnali di ottimismo: Londra e Bruxelles hanno deciso di proseguire le trattative nonostante la lite sul protocollo nordirlandese. E Johnson ha lanciato un segnale distensivo: la legge «incriminata» andrà davanti alla Camera dei Lord per l’approvazione solo a dicembre, dando quindi tutto il tempo ai negoziatori di concludere un accordo che disinneschi la mina. Resta però una spada di Damocle che pende sulle trattative.
I nodi del contendere sono sostanzialmente due: i diritti di pesca e gli aiuti di Stato. Londra non vuole più consentire ai pescherecci europei libero accesso alle sue acque territoriali, ma chiede di negoziare delle quote annuali. La vera battaglia è però sugli aiuti di Stato, che i britannici vogliono sottrarre ai vincoli europei sulla concorrenza per dare vita a campioni nazionali nell’alta tecnologia. Più in generale, Bruxelles vorrebbe mantenere Londra in un’orbita regolamentare europea, per impedire una concorrenza sleale, mentre i britannici si considerano ormai un Paese terzo del tutto sovrano. Boris, in difficoltà per la cattiva gestione dell’emergenza Covid, ha bisogno di un accordo per portare a casa un successo politico. Se nei prossimi giorni calerà il silenzio stampa e i negoziati entreranno nel «tunnel» sarà un buon segno, perché vorrà dire che stanno facendo sul serio.

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