Fonte: Corriere della Sera
di Beppe Severgnini
Per la destra britannica è tempo di godersi la vittoria. Ma perfino i leavers parlano mal volentieri dell’uscita dall’Ue. I remainers: «Forse avevamo ragione noi. Tra 10 anni lo capiremo. Ma non possiamo diventare re-moaners (ri-mugugnatori)»
«Quando sono arrivato davanti all’hotel Adelphi di Liverpool con le valigie, mi sono bloccato. Mai vista una porta girevole. Ho lasciato passare un altro, per vedere come riusciva a entrare». Nel 1962 Sergio Poletti aveva ventidue anni, veniva dalla Lunigiana, non parlava inglese e faceva il cameriere. Due sterline la settimana. L’Adelphi era il grande albergo delle partenze per l’America, delle vigilie elettorali del laburista Harold Wilson, delle star dello spettacolo di passaggio: un mastodonte bianco vicino alla stazione di Lime Street, con sale immense e moquette lussereggianti. «Millecinquecento breakfasts al giorno», ricorda Poletti, e «per noi italiani il permesso di soggiorno era legato al contratto di lavoro: se perdevi il posto, dovevi lasciare l’Inghilterra». All’Adelphi, tre anni dopo, prese alloggio l’Inter di Helenio Herrera, che doveva giocare contro il Liverpool, ad Anfield, semifinale d’andata della Coppa dei Campioni. Martedì 4 maggio 1965, di fronte a cinquantamila tifosi scatenati, 3 a 1 per i Reds.
Gli esordi di Poletti: «Senza lavoro dovevi andartene»
«Mi sfottevano», ricorda Poletti. «Inter, under the arm!, gridavano, infilandosi la mano sotto l’ascella. Così dico ai colleghi inglesi: a Milano vinciamo e passiamo il turno. Scommettiamo? Se perdo, pago da bere a tutti. Se vinco, appendete la foto dell’Inter dietro al bancone». A San Siro, 3 a 0 per l’Inter, che va in finale (e vincerà la Coppa): gol di Corso, Peirò, Facchetti. Il giovane Sergio piazza la foto della squadra dietro il bancone dell’Adelphi. «Chi spingeva indietro la testa per buttar giù la pinta di bitter, doveva alzare lo sguardo: e l’Inter era lì ad aspettarlo», ricorda soddisfatto. Oggi Sergio Poletti sta per compiere ottant’anni e possiede tre ristoranti a Chester, città a sud di Liverpool, verso il confine col Galles. Sta tornando a casa. Il sedile EasyJet gli va stretto, il figlio Gianni lo assiste.
Sarà difficile ingaggiare i camerieri (italiani) più bravi
I Poletti capiscono che Brexit potrebbe creare difficoltà all’attività, se non dovesse arrivare un buon accordo con l’Unione Europea: difficoltà a ingaggiare camerieri italiani («i più bravi, non c’è partita»), aumento dei costi per vino, pasta, formaggi, salumi. Ma mi accorgo che, della questione, parlano malvolentieri. Sarà così dovunque, per otto giorni: Brexit ha smesso di essere un argomento popolare, in Inghilterra. Forse perché se n’è parlato troppo – dal referendum (23 giugno 2016) all’uscita dalla UE (31 gennaio 2020) sono trascorsi più di tre anni e mezzo – forse perché s’è litigato tanto. L’impressione è che sia in corso una silenziosa rimozione (nessuno sa rimuovere e tacere come gli inglesi). Quasi tutti preferiscono parlare d’altro. Magari dell’interista Romelu Lukaku, che a Liverpool – sponda Everton – s’è fatto le ossa. I treni sono affascinanti perché passano dietro alle cose. Non mostrano le facciate, ma i cortili; non le vetrine, ma i depositi; non le prospettive, ma i ricordi.
Manchester, «l’anticamera del Purgatorio»
Il treno che dall’aeroporto di Manchester, in poco più di un’ora, porta a Liverpool, corre attraverso quello che è stato il centro produttivo del mondo, tra metà Ottocento e metà Novecento. Un luogo dove gli antenati sono stati bravi: fin troppo. Oggi le infrastrutture sono invecchiate; e non tutte le fabbriche chiuse sono state riaperte. Esiste una nuova Manchester, scientifica e vitale, ma dai finestrini del treno si intravede quella che gli inglesi del sud – perfidi – insistono a considerare l’anticamera del purgatorio: mattoni rossi, rotaie invecchiate, una nazione bisognosa di manutenzione. Appaiono, a destra, le due glorie della città, i templi del calcio: Old Trafford, dove giocano i rossi del Manchester United e Etihad Stadium, casa degli azzurri del Manchester City. Dopo una trentina di chilometri, la fermata di Warrington, Lancashire, dov’ero venuto all’inizio degli anni ‘90 per un bizzarro gemellaggio con Crema, la mia città, proposto da Pete McCarthy, scrittore e presentatore televisivo (la serie si chiamava Travelog, era trasmessa da Channel 4).
Liverpool, effetto Brexit sulla Premier League?
Ricordo il tradizionale Morris Dancing: dopo due birre, devo aver ballato anch’io. Al capolinea, la stazione di Lime Street, Liverpool. È la città inglese che amo di più, fuori da Londra: gli scouse sono i napoletani d’Inghilterra, non ci si annoia mai. Nel centro di allenamento dell’Everton, Finch Farm, vegliato da Carlo Ancelotti, cerco di introdurre l’argomento: Brexit potrà pesare sulla Premier League? Oggi i giocatori comunitari sono circa 300, il 40% del totale: tanti quanti gli inglesi (il resto sono extraeuropei). Come prendere calciatori fuori dal giro delle nazionali? Come rifornire i vivai, se verranno messi limiti alla circolazione delle persone? Mi accorgo in fretta che il tema è giudicato noiosissimo.
«La Gran Bretagna ce la farà», mi dice Ducan Ferguson. Resta da vedere come, Ma non insisto
e ponessi la domanda al centravanti Calvert-Lewin o al portiere Pickford mi sbadiglierebbero in faccia, immagino. A tavola, mi rivolgo perciò a Duncan Ferguson – scozzese, 48 anni, vice di Ancelotti, ex-attaccante e leggenda dell’Everton. Ferguson detiene il record di espulsioni in Premier League, nonché una condanna a tre mesi di reclusione per aver steso un avversario con una testata nel 1994 (trascorse 44 giorni dietro la sbarre, il primo giocatore britannico a finire in carcere per un’azione sul campo). Brexit?, gli domando. Mi fissa, poi risponde in scozzese stretto: «La Gran Bretagna è un grande Paese, ce la farà». Resta da vedere come, ma decido di non insistere.
Londra: due chiacchiere con Anne Applebaum
Londra, domenica. Giornata di vento e pioggia, il bus numero 94 scarica a Notting Hill passeggeri imbacuccati. La parte bassa di Kensington Park Road si è riempita di ristoranti italiani. Tra il 1985 e 1987 ho vissuto da queste parti (20, Lansdowne Crescent): un seminterrato che a me piaceva moltissimo e mia madre, quand’è venuta a trovarmi, ha definito imbarazzante. Notting Hill è cambiato meno, rispetto ad altre zone di Londra. Certo: oggi un giovane giornalista italiano non potrebbe permettersi di abitare in zona. La City, collegata con la linea rossa, ha fatto salire i prezzi; il film con Hugh Grant e Julia Roberts ha aumentato numero di turisti in pellegrinaggio. Ma i saliscendi, le case bianche e i giardini interni non sono cambiati: Notting Hill e Holland Park restano due isole verdi e bianche in una città grigia e rossa. La mia amica Anne Applebaum, quand’è a Londra, abita qui, nella casa di un conoscente. Ha un passaporto americano e un passaporto polacco, un marito a Varsavia, un figlio a Baltimora, un altro nel Connecticut; e sta per venire a insegnare a Bologna, alla John Hopkins University. Premio Pulitzer per il libro sui gulag sovietici, è staff writer di The Atlantic, è associata alla London School of Economics e gira il mondo per conferenze: è tornata stamattina da Caracas. Ci conosciamo dal 1989 – lei era una ragazza, io poco più – ci vediamo spesso. Parliamo di figli, di giornali e, ovviamente, di Inghilterra: luogo del cuore per entrambi. È una liberal-conservatrice, oggi senza casa politica: detesta Donald Trump, s’è opposta a Brexit e diffida di Boris Johnson, che conosce bene. È preoccupata. «Per la destra britannica, europea e americana, non è finita qui: cercheranno di smontare l’Unione Europea, stai a vedere».
«Per la destra Britannica non è finita qui: cercherà di smontare l’Unione Europea»
Peter Grimsdale è l’autore di High Perfomance – When Britain Ruled the Roads (Simon & Schuster, 2019), il racconto dell’avventura portentosa dei motori inglesi, di cui è appassionato. È stato il regista di alcuni documentari della BBC (tra questi Locomotion, sulle ferrovie nel mondo), ha curato programmi come Crimewatch e Panorama, è stato commissioning editor per Channel 4. Suo padre, Lawrence Grimsdale, ispettore scolastico a Sheffield, nel 1985 mi aveva accompagnato nell’ecatombe industriale della città. Ci incontriamo al Reform Club di Londra. Peter è un remainer convinto – ha vissuto con dolore la decisione britannica di lasciare l’Unione Europea. Dice, mentre ceniamo: «A Sunderland la Nissan ha portato occupazione e benessere. I giapponesi, negli anni ‘80, hanno dato retta a Margaret Thatcher e hanno spostato la produzione nel Regno Unito. Perché lo hanno fatto? Garantiva l’accesso al mercato europeo. Eppure Sunderland è stata la prima a votare Leave, nel referendum del 2016: è diventata la città-simbolo di Brexit…». Azzardo: forse perché la frustrazione paga più della gratitudine, in politica. Peter affonda il coltello nel petto d’anatra, e non dice niente.
Oxford al telefono: «Stupore e rabbia» tra i docenti
Alla stazione di London-Paddington, la folla guarda i monitor della partenze spegnersi uno dopo l’altro. Un albero, abbattuto dalla tempesta Ciara, è caduto sui binari: tutti i treni della Great Western Railway (GWR) sono sospesi, al momento. Salta la mia giornata a Oxford. Scrivo agli amici che dovevo incontrare: Nicola Gardini, milanese, professore di Letteratura italiana e comparata, scrittore (nel 2019 ha pubblicato Rinascere – Storia e maestri di un’idea italiana, Feltrinelli); Guido Bonsaver, trentino, insegna storia culturale italiana ed è fellow di Pembroke College; e Caterina Balistreri, siciliana, insegnante, PhD in letteratura russa a Exeter. Ho fatto conoscere Caterina e Guido nel 2011, sono stato al loro matrimonio, oggi hanno due bambini. Com’è stato l’immediato post Brexit?, domando. Nicola Gardini: «Sono dovuto rimanere lontano da Oxford per i mesi della lunga vigilia. Sono tornato a cose fatte, ho trovato stupore e rabbia. Oxford si è sempre opposta a Brexit; il mio ambiente tanto di più. Adesso, però, è chiaro che neppure Oxford era così coerentemente e fermamente contraria all’uscita dall’Unione Europea. Vi si trova, per esempio, una sinistra non liberal che nella Brexit vede nuove opportunità per la statalizzazione dei servizi; che si illude che i problemi del paese siano finiti. Le differenze tra i punti di vista si stanno radicalizzando.
Svanita l’Ue, si cerca un nuovo nemico
Il nemico Europa, ormai sconfitto, lascia il posto all’invenzione di altri nemici. Perché l’Europa non era il problema. Il problema è Brexit. E noi che non la volevamo stiamo aspettando conseguenze catastrofiche». Guido Bonsaver: «Brexit per me, oggi? È scollamento. Scollamento dall’Europa, distacco dalla casa comune che è l’Unione Europea. Ma c’è di più. È uno scollamento che viene da lontano e di cui Brexit è solo l’ultima conseguenza. A partire dagli anni ‘80, in Gran Bretagna ha dominato una classe politica che ha fatto del liberalismo un mantra e che l’ha praticato senza accorgersi che vendendo pezzi dello Stato – o dando “libertà di scelta”, come ripeteva Tony Blair – avrebbe provocato uno scollamento degli strati sociali. Case popolari, ferrovie, poste; e oggi, con Brexit, lo Stato ha privatizzato sé stesso. Oggi UK è libero di fare i propri accordi commerciali, di lasciare che siano gli affari, il mercato, a decidere che cosa è meglio. La Gran Bretagna sarà sempre meno quel Paese che ho conosciuto e amato trent’anni fa. Scappa da ridere a dirlo, ma con la saga dei duchi del Sussex, sembra quasi che anche la famiglia reale abbia iniziato a privatizzarsi. Pure loro si stanno scollando».
A ovest di Brighton, i pensionati sul mare
Andiamo a trovare Melanie e David a Hove, appena a ovest di Brighton. Le località di mare hanno qualcosa di simile dovunque: lo spessore dell’aria, una parete di cielo orizzontale. Gabbiani irritabili volano sull’alta marea, sull’architettura finto-Tudor dei sobborghi, sulle facciate vittoriane ed edoardiane del lungomare, dove la ruggine cola sul bianco. Chi vuole deridere Brighton e Hove, le chiama «God’s waiting rooms», le sale d’aspetto di Dio, vista l’età media dei residenti. Molti londinesi hanno deciso di trasferirsi qui, dopo la pensione. Altri le hanno scelte perché stanno sul mare, a un’ora di treno da Londra, con un aeroporto vicino (Gatwick). Abitano qui la cantante Adele, il dj Fatboy Slim e la youtuber Zoella (Zoe Elizabeth Sugg, 11,5 milioni di iscritti), che tempo fa ha postato la foto di uno sconosciuto sulla spiaggia («Random man and his dog»), senza accorgersi che era David Gilmour dei Pink Floyd a spasso col cane. Anche la mia amica Melanie Davis è venuta a vivere qui con suo marito, David Wilson. Entrambi hanno lavorato a lungo in televisione (produzione, regia). Ci siamo conosciuti nel 1979 a Bruxelles. Mel mi ha subaffittato una stanza a Clapham nel 1984 – il mio primo ufficio di corrispondenza da Londra! – e mi ha spiegato perché i Talking Heads fossero più istruttivi di Cat Stevens: non posso non volerle bene. Quando ci incontriamo, da quattro anni, parliamo solo di Brexit. Stavolta, mi trattengo.
Quel pudore per gli amici inglesi europeisti
Mi accorgo di provare una sorta di pudore verso gli amici inglesi europeisti (quasi tutti). Chiedo solo, a cose fatte, un’ultima impressione: poi prometto di lasciarla in pace. Dice: «Noi Remainers dobbiamo accettare d’aver perso. È possibile che avessimo ragione: tra dieci anni lo capiremo. Ma non possiamo diventare re-moaners (ri-mugugnatori). Tra noi – la metà della popolazione, più o meno – c’è scetticismo sulla possibilità di negoziare un accordo commerciale favorevole con il Continente e preoccupazione per l’economia: dovrà crescere, per realizzare la New Britain promessa da Boris Johnson e Dominic Cummings. Nel profondo del cuore, abbiamo la sensazione che Brexit Island stia affondando. Ma tentiamo comunque di sventolare la bandiera sopra le onde che salgono. Cos’altro possiamo fare?». Di nuovo a Londra, ultimo giorno. A chi non c’è mai stato, suggerisco una visita alla National Portrait Gallery (dove dal 27 febbraio è aperta la mostra David Hockney – Drawings from Life). C’è una sezione dedicata al XX secolo, con Christine Keeler, Harold Wilson, Margaret Thatcher, la principessa Diana; e un’altra sezione con i contemporanei (da Elton John a Amy Winehouse). Circa 11 mila ritratti di protagonisti della storia britannica, 1.400 in mostra a rotazione. Giro, guardo, penso. Non c’è niente da fare: gli inglesi sanno mescolare il passato, instancabilmente, finché non diventa un flusso uniforme. Succederà anche con Brexit, qualunque cosa accadrà. Diventerà un ricordo, cinque ritratti su un muro, un’ansa nel fiume.