L’Europarlamento: rischi per il debito pubblico, tagli a sanità e ambiente
Al 31 dicembre scorso l’Italia aveva ricevuto 102,5 miliardi per il Pnrr ma ne ha spesi solo 43. Ha cioè impiegato concretamente solo il 42% dei soldi. Una quota che rappresenta il 22% del totale dei fondi messi a disposizione del nostro Paese fino all’estate del 2026. Un risultato non brillante. E che pone più di un interrogativo sulla capacità del governo di “mettere a terra” i finanziamenti. Anche perché con la revisione del Piano effettuata nei mesi scorsi c’è stato una distribuzione degli impegni e delle riforme verso la fine della validità del NextGenerationEu, ossia il 2026.
Tutti dati presenti in uno studio condotto dal Servizio Ricerche del Parlamento europeo e concluso proprio in questo mese di aprile. In cui, appunto, si mettono in evidenza le difficoltà italiane. Proprio lo scarso “utilizzo” dei soldi fino ad ora, fa infatti dire agli uffici dell’Eurocamera che questa situazione «suggerisce l’importanza del periodo fino all’agosto del 2026 per la piena attuazione, non da ultimo anche per le misure di investimento». Un modo cortese per avvertire che nei prossimi due anni serve un’accelerazione altrimenti il rischio è non raggiungere i traguardi fissati e quindi non incassare gli altri novanta miliardi che sono stati calendarizzati nelle tranche dei prossimi sei semestri.
Anche perché dalla ricerca del Parlamento europeo emerge anche che nella “revisione” del Pnrr stabilita dal governo Meloni c’è un pesante slittamento delle tappe verso la fine del periodo di finanziamento. Nella sostanza una buona parte è stata rinviata al 2026. «La revisione – si legge nel documento – ha spostato parti delle risorse e degli obiettivi verso la fine del piano. La decima rata è diventata la più grande (32,7 miliardi di euro in sovvenzioni e prestiti, compreso il prefinanziamento) e il 46% di tutti gli obiettivi è ora collegato ad essa». Per essere più chiari: nel 2026 dovranno essere conseguiti 159 “target” su un totale di 346. Ossia nei primi cinque anni gli obiettivi da raggiungere in totale sono 187 e nell’ultimo anno 159. Evidentemente un modo furbo per agevolare il conseguimento di tutte le tranche e rischiare di perdere solo l’ultima.
Non solo. Nello studio di Bruxelles spiccano con chiarezza anche alcune scelte “politiche” adottate dall’esecutivo Meloni. A cominciare dalle riforme e dagli interventi a difesa dell’ambiente. Rispetto al piano originario, ad esempio, le risorse per le energie rinnovabili, l’idrogeno e la mobilità sostenibile sono ridotte del 7,6%. Nonostante poi tutti i disastri idrogeologici che il nostro Paese ha affrontato, i fondi per la protezione della terra e le risorse idriche sono state tagliate del 34,4%. Nella sanità i fondi per l’innovazione, la ricerca e la digitalizzazione del servizio sanitario sono stati sforbiciati dell’8,7%. Inoltre la cifra inizialmente destinata a famiglia, infrastrutture sociali e terzo settore (solidarietà sociale) ha subito una contrazione del 25,8%.
Tra le dieci “spese” più onerose del Pnrr figura al primo posto quella per l’Ecobonus e il Sismabonus fino al 110 per cento con un ammontare di quasi 14 miliardi di euro. La seconda è la transizione digitale con poco più di 13 miliardi. La terza riguarda le linee ferroviarie ad alta velocità: 8,7 miliardi.
C’è un altro aspetto che viene sottolineato nello studio e riguarda la distribuzione dei Grants (i soldi gratuiti) e dei Loans (prestiti). «La metà dei pagamenti – si legge – per le sovvenzioni sono concentrati nelle prime tre rate, mentre quelli per i prestiti sono distribuiti in modo più uniforme nel ciclo di vita del piano». Una scelta che potrebbe avere effetti nel periodo successivo sul debito pubblico.Si rinvia insomma un po’ tutto alla fine del Pnrr. Ossia a fine legislatura.