19 Settembre 2024
europa

I travagli di Parigi, la leadership debole di Berlino: per l’Italia si apre la possibilità di giocare da protagonista

Quando è arrivata ieri mattina la notizia che Thierry Breton, il potente e stagionato commissario europeo nominato da Parigi, si dimetteva dall’incarico in aperta e astiosa polemica con Ursula von der Leyen, abbiamo sperato. Abbiamo sperato che finalmente fosse venuto alla luce del sole lo scontro politico in corso su qualcuno dei grandi problemi che sono di fronte all’Europa. Breton è (era) commissario del mercato interno. Ci siamo detti: tra lui e Ursula ci sarà disaccordo sul contenuto del rapporto Letta, destinato appunto a completarlo e ampliarlo. Oppure hanno litigato sui grandi temi della competitività persa dal nostro continente, drammaticamente denunciati da Mario Draghi. O magari sull’Ucraina e l’uso delle armi europee contro il territorio russo. Oppure ancora sulle questioni istituzionali che restano aperte nell’Unione, come l’estensione del voto a maggioranza per evitare che un solo paese ne blocchi 27. O infine si sono divisi sulla grande «battaglia digitale», di cui Breton si era direttamente occupato attaccando fragorosamente Elon Musk.
Ecco, ci siamo detti, alla vigilia della presentazione della nuova Commissione, che è prevista per oggi ma a Bruxelles non si può mai dire, vuoi vedere che davanti all’opinione pubblica si fa un atto di trasparenza democratica?
Ahinoi, non era così. Dallo staff di Ursula hanno anzi fatto sapere che risposta non ci sarebbe stata perché la presidente tiene moltissimo al metodo «confidenziale» con cui sta trattando capitale per capitale, partito per partito, i nomi e le deleghe della sua Commissione. Si sarebbe trattato insomma di una mera idiosincrasia personale, del resto già evidente da tempo. E di un gioco politico a due tra Bruxelles e Parigi. Ursula non voleva più Breton, Macron voleva deleghe più importanti per il commissario francese, che la presidente gli ha offerto in cambio della testa di Breton. Così neanche poche ore dopo l’Eliseo ha indicato il suo nuovo nome, il ministro degli esteri Stéphane Séjourné, un macronista che più macronista non si può. E ciò che sembrava un terremoto si è rivelato un semplice assestamento di politique d’abord. Che forse spiana addirittura la strada alle nomine di oggi. Visto che adesso Parigi ha avuto ciò che voleva, e i liberali non possono più fiatare sugli incarichi altrui. Ultimo ostacolo resta il pasticcetto sloveno, la lite interna per la ratifica del loro nome. Ma per quanto Lubiana sia importante, non vale uno stallo europeo.
Quindi, paradossalmente, il caso Breton avvicina anche la nomina di Raffaele Fitto a vicepresidente esecutivo con delega su fondi di Coesione e del Pnrr (la delega sull’Economia non è mai stata in discussione, come pure è stato scritto, e infatti non ci sarà).
L’italiano a Bruxelles, che ieri è stato significativamente ricevuto al Quirinale, gestirà dunque un programma di investimenti che cuba intorno ai mille miliardi di euro. E mentre si aspettano quegli 800 miliardi all’anno che Draghi ha indicato come condizione minima per tenere il passo della produttività con Usa e Cina, la cifra che gestirà Fitto è l’unica massa di denaro oggi disponibile per essere spesa. Poiché molti paesi sono in ritardo sul Pnrr (molto più di Roma), Fitto potrebbe anzi essere chiamato anche a un delicato ruolo di negoziatore con le capitali sulla revisione o riscrittura dei piani, e chissà, magari anche sull’allungamento dei prestiti ai Paesi. Il che accrescerebbe il peso del portafoglio italiano.
Ma per quanta soddisfazione potrà dichiarare il governo Meloni se le cose andranno così, non si potrà certo brindare a una svolta in Europa. È difficile anzi negare che anche il caso Breton rivela una crisi profonda delle istituzioni europee, e aggrava i dubbi sulla loro capacità di guidare il processo storico di fronte al quale ci troviamo. Non sfugge a nessuno che ieri a Bruxelles è andato in scena uno scontro aperto tra un francese e una tedesca, certo non usuale in quelle stanze. Segno magari minore, ma ulteriore, di un indebolimento della prassi di collaborazione franco-tedesca senza la quale l’Unione non va avanti.
L’unico leader che negli ultimi anni aveva abbozzato una qualche visione per l’Europa, Emmanuel Macron, sembra azzoppato in patria e fuori, al punto che deve cambiare commissario in corsa. Scholz, dal canto suo, una leadership in Europa non l’ha mai esercitata, e forse nemmeno in Germania. I fatti di ieri sembrano insomma un’altra conferma delle grandi potenzialità che la situazione offre all’Italia per entrare in una cabina di regia oggi così povera di protagonisti all’altezza. Non è detto che Giorgia Meloni ci possa riuscire, ma almeno dovrebbe provarci. Fitto vicepresidente sarebbe un successo indiscutibile per l’Italia. Ma noi dobbiamo pensare anche al successo dell’Europa.

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