Un grande quesito agita il mondo dell’economia, in particolare quello del risparmio. Non tanto per capire quanto durerà ancora la pandemia o se avrà nuove ondate — l’attesa è che prima o poi finisca — bensì per comprendere se l’inflazione sia da considerarsi un fenomeno passeggero o no. E qui torna il gioco perverso delle aspettative, razionali o meno, che domina da sempre la mente dei soggetti economici.
Paragoni
Stephen Roach, sul Financial Times, ha giustamente paragonato il periodo che stiamo vivendo agli anni Settanta. Allora non avevamo pandemie. Nel Dopoguerra ci si vaccinava obbligatoriamente, anche perché le ferite di guerre e malattie erano ancora quotidianamente visibili. Ma, in quel decennio, avemmo ben due laceranti crisi petrolifere. L’Opec, l’organizzazione dei produttori di greggio, è tornata paradossalmente centrale. A dispetto della sua anima maledettamente fossile. Le tempeste del Ninho anticipavano l’attuale emergenza climatica e sconvolgevano trasporti e forniture con violente ripercussioni sui prezzi. Le catene del valore erano meno globalizzate ma, come oggi, lunghe e fragili. L’inflazione portò a un aumento generalizzato dei tassi sconvolgendo ulteriormente gli equilibri monetari già terremotati dalla decisione americana (agosto 1971) di far venire meno la convertibilità del dollaro in oro.
Le banche centrali persero la battaglia contro mercati finanziari assai meno globalizzati e potenti (e soprattutto più occidentali). La vinceranno oggi? Ecco il punto. O l’inflazione, che viene considerata ancora incidentale, conseguenza dell’accelerazione improvvisa della domanda e dei colli di bottiglia nella produzione e nella distribuzione di molti beni e semilavorati nel post pandemia, comincerà ad avere ripercussioni tangibili sull’economia?
Lo spettro di un ritorno della stagflazione, fenomeno tipico degli anni Settanta, accompagna pensieri diurni e notturni degli operatori. Il Fondo monetario (Fmi) stima un aumento dei prezzi a fine anno del 4,3 per cento negli Usa e del 2,2 nell’Eurozona. L’indicatore dell’inflazione attesa nell’area euro fra 5 anni, per i successivi 5, rimane comunque all’1,85 per cento. In piena pandemia era sceso allo 0,85 per cento. A giudicare da queste previsioni, il balzo dei prezzi attuale dovrebbe rapidamente rientrare.
Dubbi
I dubbi sono legittimi. Roach è moderatamente pessimista. Nel 2020, sempre secondo gli ultimi dati Fmi, il debito pubblico mondiale è cresciuto di 27 mila miliardi di dollari, raggiungendo quota 226 mila, ovvero il 98 per cento del prodotto complessivo. Chi è più indebitato (leggi Italia) dovrebbe essere preoccupato da un rialzo dei tassi. E invece accade esattamente l’opposto. Alcuni segnali degli ultimi giorni sono passati quasi del tutto inosservati o comunque non hanno fatto breccia nel dibattito pubblico italiano dominato dallo scontro sul green pass. Il più recente è il dato sull’inflazione americana arrivata a un tasso annuo del 5,4 per cento. Livello che non veniva toccato dagli inizi degli anni Novanta e che spinge la Federal Reserve a valutare un più veloce rientro da una politica monetaria accomodante. Anche se la difesa del livello di attività economica e dell’occupazione ha assunto negli ultimi anni una preminenza maggiore rispetto all’andamento dei prezzi.
Si può dire, in estrema e brutale sintesi, che l’inflazione di questo millennio faccia meno paura di quella del secolo scorso. E, per certi versi, sia più tollerata, visti i livelli di indebitamento pubblico. Ma anche la memoria dei suoi effetti distorsivi (che colpiscono i più deboli) è labile, lontana, quasi inesistente. Negli anni Settanta era un’ossessione quotidiana, privata e pubblica. Oggi siamo disabituati a considerarla un pericolo. Siamo immersi in un lungo — e ricordiamoci artificiale — periodo di tassi d’interesse a zero o negativi. L’inflazione è stata derubricata a un mero fatto statistico. Ne hanno timore i più anziani, figli del Novecento. Meno i giovani. La grande liquidità tenuta sui conti correnti dimostra quanto sia sottovaluto il problema.
Qualche giorno fa, il governatore della Banca d’Olanda, Klaas Knot, ha espresso una certa preoccupazione. «Nel processo dell’inflazione — ha detto Knot — quello che non capiamo è maggiore di quello che capiamo. Prendete sul serio i rischi». Si è creata, di conseguenza, una corrente di vendita di molti titoli di Stato che ha riguardato anche il nostro Btp, agevolata anche dal fatto che esista un future, cedibile senza possedere i sottostanti titoli italiani.
Noi e gli altri
La correzione subita dai Btp, circa il 3 per cento, non è stata molto diversa da quella registrata dal bund, al punto che lo spread è rimasto comunque intorno a quota 100. I rendimenti dei Btp decennali sono passati dallo 0,55 per cento del 6 agosto allo 0,91 del 12 ottobre. Gli analoghi titoli francesi o tedeschi hanno avuto andamenti simili. Lo scudo della credibilità del governo Draghi può essere saggiato anche da questo piccolo frammento dell’andamento dei mercati, ma dovrebbe nello stesso tempo consigliarci prudenza e attenzione. Siamo più fragili di quanto non si pensi. E non dobbiamo dimenticarci che la Bce compra quasi tutti i nostri titoli, anche se la ripresa economica più forte del previsto ha rallentato le emissioni.
In ogni caso, non è sfuggito agli osservatori più attenti — e soprattutto agli operatori che vivono di aspettative — il piccolo movimento del sismografo dei mercati. I portafogli si sono alleggeriti di titoli a tasso fisso con cedole non così alte da giustificare il rischio legato a un aumento dei tassi. Negli ultimi tempi si erano diffuse, con un certo successo, emissioni con scadenze lunghe, i cosiddetti titoli «matusalemme», oggi dal potenziale esplosivo. Il Btp con scadenza 2072 dai 105,26 euro di prezzo del 10 agosto è sceso a 98,35 il 12 ottobre con una perdita del 6,6 per cento. Per recuperarlo è necessario incassare tre anni e mezzo di cedole nette (1,88 per cento).
Discorso diverso per i titoli di Stato a tasso variabile e per quelli inflation linked. I Btpi — si legge in una nota del Ministero dell’Economia e della Finanze (Mef) — sono «titoli che forniscono agli investitori protezione contro l’aumento dei prezzi». Il Btpi con scadenza maggio 2030, che agli inizi di agosto valeva 111,55 euro, è oggi ancora a 111,30. I Btp Futura, lanciati in aprile in «formato famiglia», a maggio invece erano già scesi a 95,36 per poi sfiorare a fatica la parità. Oggi sono intorno a 98. Forse il premio finale e le cedole crescenti non sono state ritenute in grado di costituire una difesa sufficiente contro il rischio di inflazione. I titoli pubblici in scadenza nel 2021 arriveranno a toccare, alla fine dell’anno, 382 miliardi, di cui 215 a medio e lungo termine.
Quello che è accaduto in questi giorni sarà certamente utile per trovare forme di maggiore protezione degli investimenti da un’inflazione alla quale non eravamo più abituati e per molti era e resta persino sconosciuta.