Nelle società complesse non tutto può essere risolto dalla legge, non se sono in corso cambiamenti epocali
Ci sono dilemmi morali non decidibili. Almeno non con gli strumenti della norma giuridica, dei delitti e delle pene. Per esempio: in molti riteniamo degradante e per certi aspetti perfino coloniale la pratica della maternità surrogata, quando essa trasforma l’esperienza intima della gestazione in una prestazione, regolata da un contratto di affitto dell’utero materno; ma troviamo inaccettabile che i bambini portati in grembo e partoriti in quel modo siano anche minimamente discriminati rispetto agli altri. Eppure è questo che avviene se si riconosce loro il diritto ad avere un solo genitore anziché due.
Oppure ancora: siamo convinti che lo Stato non debba cedere mai al ricatto della violenza, e che il regime carcerario del 41 bis abbia le sue giustificazioni, ma non vogliamo in nessun modo che Alfredo Cospito muoia; vogliamo anzi che lo Stato, soprattutto oggi che non è più in pericolo di vita come ai tempi delle Brigate Rosse, faccia di tutto perché resti in vita il detenuto in sua custodia.
È probabile che la maggioranza degli italiani la pensi pressappoco così. Non è incapacità di decidere, è puro buon senso. Nel dibattito pubblico ci viene spesso chiesto di schierarci con l’una o l’altra delle posizioni alternative, di scegliere tra la soluzione A e la soluzione B. Perché questa è la logica della politica e della democrazia dell’opinione, organizzata come un derby quotidiano tra fazioni. Ma noi spesso vorremmo sia A sia B, vorremmo che il principio del rispetto della legge fosse sempre reso compatibile con il principio della centralità della persona e della vita umana. Pensiamo infatti che il primo sia lo strumento e il secondo il fine. E perciò preferiremmo una soluzione che accresca la «felicità generale», e dunque anche quella personale di tutti i soggetti coinvolti; perché «se la felicità di una persona è un bene per quella persona, la felicità generale è un bene per l’insieme di tutte le persone».
Questa idea l’ha formulata un filosofo, John Stuart Mill, considerato il maggiore esponente di una dottrina etica, l’utilitarismo. È nata in un contesto culturale, il liberalismo inglese, che fu capace di separare la morale dalla politica. E si trova molto a suo agio in un ambiente di «common law» come quello anglosassone, dove non comanda il Codice ma il Diritto consuetudinario, la giurisprudenza basata sulle decisioni precedenti. È molto più difficile dunque da applicare a un sistema come quello italiano che invece idolatra la Legge, la Norma, e anzi ne produce in quantità mostruose, non paragonabili a quelle degli altri grandi Paesi civili.
E così eccoci qui, ancora una volta, a voler decidere con una norma (ovviamente penale) del comportamento individuale, trascurando la critica del paternalismo etico che proprio Stuart Mill ci ha consegnato: «Non si può costringere legittimamente qualcuno a fare o non fare qualcosa spiegandogli che sarebbe meglio per lui agire in quel certo modo, che agire così apparirebbe saggio o addirittura giusto agli occhi degli altri. Tutte queste sono delle buone ragioni per muovergli delle obiezioni, per invitarlo a discuterne, per persuaderlo oppure per supplicarlo: ma non per costringerlo o per fargli del male nel caso agisca diversamente».
Si può applicare questo buon senso etico anche al tempo d’oggi e alle nostre latitudini? Possiamo persuadere le coppie che un figlio in adozione o in affido può soddisfare il loro desiderio di genitorialità, e aprire nei fatti questa strada, riducendo così il rischio di mercificare il corpo di una donna? Possiamo supplicare Cospito — sì, supplicare — di mettere fine a una protesta che può costargli la vita? O diventiamo troppo deboli se lo facciamo, perché lo Stato perde così la sua faccia feroce, da codice penale, e diventa meno credibile e rispettato?
Arrivati a questo punto il lettore avrà capito che la risposta di chi scrive è che sì, possiamo e dobbiamo provarci. A due condizioni. La prima è che i partiti, e le loro mosche cocchiere, non usino questi dilemmi morali come strumento di lotta politica, sollecitando la facile indignazione del pubblico con l’invettiva moralistica. Non ci può essere un bipolarismo etico. Anzi, vicende come le due citate dovrebbero essere messe ai margini della conflittualità politica, affrontate in una sfera di riservatezza e prudenza, mai impugnate come bandiere. Un grande liberale, Ralf Dahrendorf, arrivava a dire che per tali questioni neanche i parlamenti sarebbero pienamente titolati a decidere a maggioranza, e servirebbero dei «Senati etici» non condizionati dalla ricerca del consenso elettorale (non a caso sono oggi spesso le corti supreme o costituzionali, poteri potenzialmente neutri, ad assolvere a questa funzione nelle democrazie occidentali).
La seconda condizione è convincerci che nelle società complesse non tutto può essere risolto dalla legge; soprattutto quando, come adesso, cambiamenti epocali del costume rendono inservibile la morale tradizionale. Ci sono infatti mille altri strumenti per incidere sulla realtà: la pressione di un’opinione attiva e informata, la persuasione nel dibattito pubblico, il lobbying di associazioni e gruppi di opinione, i codici deontologici delle professioni, i regolamenti amministrativi, le decisioni giudiziarie.
Ci deve pur essere, in qualche punto del nostro sistema, un atto di umanità che salvi la vita di Cospito, o protegga la felicità di un bambino, senza che ciò contraddica la nostra condanna morale per chi ha infranto la legge. Uno Stato moderno ha molti modi per riconoscere la «priorità della democrazia sulla filosofia».