20 Settembre 2024

Fonte: Corriere della Sera

di Maurizio Ferrera

Il Decreto Semplificazioni scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia


Nel periodo più difficile dei negoziati sul Recovery fund, a maggio, Angela Merkel si trovò più volte a difendere l’Italia: i Paesi frugali non si fidavano di come avremmo speso i «loro» soldi. In una intervista la Cancelliera menzionò espressamente l’impegno di Giuseppe Conte a «rivoluzionare» la burocrazia, creando le condizioni per facilitare gli investimenti.
In effetti, ai primi di luglio il governo di Roma ha varato in pompa magna il Decreto Semplificazioni. Un piccolo progresso, senza dubbio. Che però scalfisce solo i margini di quella montagna di regole e procedure con cui la pubblica amministrazione irrigidisce e rallenta quotidianamente il funzionamento dell’Italia.
Nelle sue linee guida sul Next Generation Eu (il piano straordinario da 750 miliardi), la Commissione ha invitato i governi a spiegare bene da chi e come verranno gestiti i vari progetti. Ribadendo peraltro che, dopo un primo anticipo nel 2021, l’erogazione dei fondi sarà subordinata al rispetto scrupoloso di scadenze e realizzazioni. Come faremo? Gli orientamenti sul Piano di ripresa e resilienza che il ministro Gualtieri ha da poco presentato al Parlamento comprendono l’ammodernamento dell’apparato statale. Ma a parte la nuova enfasi sulla digitalizzazione, gli obiettivi sono gli stessi delle dieci «riforme della pubblica amministrazione» introdotte fra il 1990 e il 2014, che hanno portato a ben pochi risultati.
La situazione è particolarmente allarmante proprio sul fronte delle infrastrutture. Le Relazioni periodiche della Commissione sulle politiche di coesione segnalano con dovizia di dati i ritardi e le manchevolezze italiane. Prendiamo l’indice più sintetico sulla «qualità delle istituzioni e l’efficienza del governo» (capacità e responsabilità esecutiva, corruzione, reclutamento meritocratico, professionalità e così via): il nostro Paese è agli ultimi posti in graduatoria, dietro di noi ci sono solo Grecia, Bulgaria e Romania. Per giunta, questi ultimi due Paesi hanno significativamente migliorato la loro posizione in confronto a dieci anni fa, mentre noi l’abbiamo peggiorata.
Il tempo stringe, è chiaro che non si può fare in pochi mesi ciò che non si è riusciti a fare in trent’anni. Ma non possiamo più nasconderci dietro alle belle parole. Gli esperti hanno da tempo elaborato accurate diagnosi dei problemi e proposte di soluzione, è urgente fornire subito qualche segnale concreto di cambiamento. Provo a suggerirne due.
Il nostro Parlamento vara provvedimenti legislativi troppo complessi e soprattutto incompiuti, in quanto necessitano di numerosi atti ulteriori per diventare esecutivi. Ciò vale anche, paradossalmente, per il Decreto Semplificazioni. La legge di conversione (approvata ai primi di settembre) prevede una sessantina di provvedimenti attuativi, 1,5 per articolo. Ecco allora un primo possibile segnale: il governo s’impegni a varare tutti questi provvedimenti entro la fine dell’anno, di modo che le semplificazioni siano pienamente operative prima che arrivi l’anticipo di Bruxelles.
Il secondo passo deve essere più ambizioso e aggredire l’intera cornice di gestione delle infrastrutture, in particolare quelle co-finanziate dalla Ue. Nel sistema attuale ci sono troppi attori e troppi passaggi, con scadenze indefinite e scarsa attenzione per la sostanza, il monitoraggio, la valutazione dei risultati. In alcune regioni del sud un’iniziativa banale come il restauro di un edificio scolastico a valere su fondi Ue può richiedere fino a cinque anni. Insomma, troppa legge, poco management. E, nonostante il castello di regole, il sistema tende a generare comunque frodi, molta corruzione e poca imparzialità.
Il Piano di ripresa e resilienza dovrebbe contenere un progetto dettagliato di razionalizzazione e sfrondamento regolativo, al netto delle modifiche previste dalla Legge semplificazioni. Il segnale concreto potrebbe essere l’avvio di un programma straordinario di formazione manageriale per i dirigenti pubblici, nonché l’assunzione di un consistente numero di giovani con competenze ed esperienze di analisi e gestione delle politiche europee. I posti ci sono, molti dei funzionari che si occupavano di fondi Ue sono andati in pensione con Quota 100.
La Commissione ha un programma dedicato che fornisce supporto tecnico e risorse per simili iniziative. Fruire di questa opzione avrebbe un duplice vantaggio: di sostanza (ricevere assistenza concreta) e di forma (confermare l’impegno ad allinearsi agli standard «di qualità» europei). E, dal punto di vista simbolico, sarebbe perfettamente in linea con la logica del Next Generation Eu: quella di coinvolgere i giovani nel costruire l’Italia e l’Europa del (loro) futuro.

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