Fonte: Corriere della Sera
di Paolo Mieli
Sconfiggere gli jihadisti si sta rivelando qualcosa di maledettamente complesso. Un gioco di specchi dove i successi rischiano di trasformarsi in disfatte. Peggio, dove neanche riusciamo a immaginare quale possa essere considerata una vittoria definitiva
Ci siamo (forse). Il colonnello americano Steve Warren, portavoce della coalizione anti Isis, ha spiegato che lo «Stato di emergenza» dichiarato nella città di Raqqa è da interpretare come l’inequivocabile segnale del fatto che gli uomini di
Al Baghdadi si sentono prossimi alla resa dei conti. Cioè al giorno in cui sono destinati a soccombere. Ed è evidente — ha aggiunto — che, se cadrà la «capitale siriana» del Califfato, andrà in pezzi una parte rilevantissima della costruzione statuale degli jihadisti. Nabil El Fattah ex direttore del Centro di Studi strategici di Al Ahram del Cairo ha più volte illustrato come la penetrazione di Daesh in Iraq e poi in Siria non si spieghi solo con la forza militare messa in campo. Almeno agli inizi, i miliziani islamisti sono stati visti dalle popolazioni sunnite dell’Iraq come una sorta di armata di liberazione in grado di proteggerli dal potere sciita imperante a Bagdad. E a Damasco.
Nei territori conquistati, Isis ha poi messo in piedi un suo welfare, creato ministeri, forze di polizia. Governava, insomma. Con il terrore, certamente, ma anche con il consenso. L’ex direttore dell’Economist Bill Emmott da ciò ha tratto la conclusione che negli ultimi tre anni lo Stato Islamico ha avuto un grande potere di attrazione proprio perché è riuscito a rendersi credibile come potenza, e in particolare come una forza capace di affermarsi militarmente. Alla stregua di uno Stato vero e proprio, che oggi governa ampie aree di territorio in Siria, Iraq e, persino, in Libia.
Il suo successo nel conquistare la città di Mosul in Iraq e Raqqa in Siria ha agito come fonte di ispirazione per molti musulmani, in Medio Oriente, ma anche in Africa o in Europa. Lo Stato Islamico non è attraente solo per la sua ideologia o per la religione. Lo è nelle fantasie dei musulmani di Siria e Iraq, per i quali starebbe facendo l’effetto che la creazione di Israele, e poi la sua agguerrita difesa, fecero per quelle degli ebrei in Palestina. Perciò — seguendo il ragionamento di Emmott — se ora crollasse, sarebbe come se Israele in quanto Stato non fosse sopravvissuto alla guerra del 1948-49. Un’autentica catastrofe.
Ma è questo quel che sta davvero accadendo? Secondo una mappa pubblicata due mesi fa dal Washington Post, tra gennaio 2015 e metà marzo 2016 il Califfato ha perso circa un quinto del territorio che precedentemente aveva conquistato. Altre fonti dicono il 40 per cento. Il mito dell’invincibilità jihadista si è incrinato una prima volta (per merito dei curdi) al momento della perdita di Kobane. Poi, spalleggiato dai Sukhoi dell’aviazione russa, l’esercito di Assad, a fine marzo, ha riconquistato Palmira, che nell’estate 2015 — quando gli incappucciati dell’Isis avevano fatto saltare la tomba di Mohammed bin Alì e il tempio di Baal — era divenuta la città martire della cultura mondiale. E un concerto diretto da Valery Gergiev davanti a quel che restava delle rovine (con un discorso di Putin in prudente videoconferenza dalla sua residenza di Sochi) ne aveva celebrato la liberazione. Persa Palmira, l’Isis reagiva riconquistando Yarmuk a otto chilometri da Damasco, a danno del Fronte al Nusra, branca locale di Al Qaeda, i cui adepti — nel frattempo — erano passati quasi tutti con Al Baghdadi. E qualcosa di simile, probabilmente, poteva ripetersi ad Aleppo ma — onde evitarlo — siriani e russi avevano preventivamente scatenato un inferno sulla città attirandosi la riprovazione di tutto il mondo occidentale.
Da quel momento si è iniziato a parlare di crisi dell’Isis, si sono diffuse notizie di crollo del reclutamento (dai duemila dei tempi d’oro alle duecento persone al mese), persino di diserzioni. Ma nel mondo islamico la percezione di queste difficoltà era precedente di almeno sei mesi. La ricerca annuale dell’Arab Youth Survey (su duecento milioni di ragazzi del mondo musulmano tra i 15 e i 24 anni) ha rivelato in aprile che la popolarità dell’Isis è in forte calo. Da tremila e cinquecento interviste individuali in sedici Paesi, emerge che il Califfato ottiene il consenso del 13%, con una discesa, in un anno, del 6%. E che, per di più, l’approvazione è sorprendentemente condizionata dalla «rinuncia della violenza». E dall’impegno alla costruzione — nelle terre conquistate — di un futuro «più stabile».
Gilles Kepel sostiene che l’Isis è in difficoltà dai tempi degli attentati di Parigi (13 novembre). Allora tra le vittime c’erano anche dei giovani musulmani, ciò che è stato criticato persino nei circoli estremisti islamici. Un conto è infatti colpire obiettivi come Charlie Hebdo a cui poteva essere imputata l’irriverenza nei confronti di Maometto. Un altro è, invece, sparare nel mucchio. Questo per quel che riguarda il reclutamento. In più c’è adesso la perdita delle loro roccaforti. Fareed Zakaria enfatizza la notizia che quelli dell’Isis abbiano perso territorio, città, fonti energetiche, ma si pone la domanda: chi governerà quei territori una volta che saranno stati liberati?
Ed è un punto importantissimo. Ammesso infatti che le informazioni provenienti dal Pentagono non siano frutto di propaganda atta a bilanciare le notizie dei successi di Putin e Assad a Palmira (in dicembre dagli Stati Uniti giunse la notizia che stava per essere liberata Mosul, la «capitale irachena» dell’Isis, e poi non se ne è saputo più nulla), la caduta di Raqqa e dell’intero Califfato sarebbero poca cosa se Stati Uniti e Russia non fossero preventivamente giunti a un accordo sul successivo controllo dell’intera area mesopotamica. E se la consegnassero a un regime di caos anarchico, Al Baghdadi e la sua organizzazione diventerebbero qualcosa di simile a quello che fu Al Qaeda ai tempi dell’Afghanistan: troverebbero rifugio nel deserto dello Yemen da dove riprenderebbero a ispirare attacchi in Europa. Poi, tra qualche mese, tornerebbero nelle terre che furono loro tra Iraq e Siria. Ne discende che sconfiggere l’Isis si sta rivelando qualcosa di maledettamente complesso. Un gioco di specchi dove i successi rischiano di trasformarsi in disfatte. Peggio, dove neanche riusciamo a immaginare quale possa essere considerata una vittoria definitiva.
Cacciamo perciò gli jihadisti da Raqqa e Mosul (e anche, quando verrà il momento, da Sirte). Ma impegniamoci fin d’ora a prefigurare in che modo e da chi quelle città — assieme alle terre che le circondano — dovranno poi essere governate.