Fonte: Corriere della Sera
di Angelo Panebianco
Bisogna apportare cambiamenti radicali e ridefinire in senso confederale l’organizzazione dell’Ue, ponendo fine allo scontro fra democrazia e integrazione
Mentre il presidente Donald Trump ribadisce, nel suo discorso
di insediamento, di volere smantellare, in nome della sua visione dell’interesse nazionale degli Stati Uniti, quella Pax Americana che ha impedito per settant’anni guerre fra le grandi potenze e ha assicurato a noi europei pace, prosperità, libertà e stabilità democratica, si moltiplicano gli (inutili e retorici) appelli all’Europa, la richiesta che l’Europa «si muova», che batta un colpo. L’Europa però non esiste e dunque non ha senso pretendere che un’entità inesistente faccia questo o quello.
Certo, esistono le istituzioni della Ue ma sono ormai da tempo immerse in una spirale che ne ha drasticamente ridotto credibilità e forza. La Bce, la Banca centrale europea, anche grazie alle qualità di chi la guida, è l’istituzione che fino ad ora ha retto meglio, e continua a esercitare un’influenza forte, benché circoscritta, sull’area euro. Poi ci sono i governi, pressati da opinioni pubbliche incattivite e da movimenti antieuropei soi disant «sovranisti» (ma guarda un po’ che razza di neologismi ci tocca usare), governi che, minacciati da forze antisistema, sono alla continua ricerca di difficili accordi tampone che possano tenere in piedi ancora per un po’ un edificio semidiroccato, con vistose crepe. Servirebbero ora, in Europa, movimenti di opinione organizzati tesi a controbilanciare e a neutralizzare le spinte disgregatrici. Ma questi movimenti, al momento, non si possono formare.
Non si possono formare non solo per gli ostacoli che sempre incontra l’azione collettiva organizzata (tanto più che, in questo caso, per rendere tale azione efficace servirebbero solidarietà e forme di coordinamento «transeuropee»). Ma anche perché coloro che temono la disgregazione dell’Europa non concordano sulle terapie. L’Europa è in una tenaglia, pressata da due forze ugualmente distruttive, i movimenti antieuropei, che si definiscono sovranisti, e l’euroconservatorismo. Con i governi, in mezzo, che si arrabattano come possono.
I sovranisti fingono di non sapere (ma forse non sanno davvero) che se fosse possibile il ritorno alla piena sovranità politica ed economica (protezionismo, autarchia) — ciò implicherebbe la fine del mercato unico europeo — non si distruggerebbero solo le basi della prosperità economica dell’Europa. Si porrebbero anche le condizioni per il ritorno della guerra. Sovranità e guerra sono sorelle siamesi. Dove ritorna l’una, prima o poi ritorna l’altra. D’altra parte, è inutile biasimarli più di tanto. Questi movimenti puntano a impadronirsi di un ricco bottino elettorale. Cosa volete che importi loro di ciò che accadrebbe dopo? È sulle opinioni pubbliche che bisognerebbe agire, convincerle che un’Europa disgregata a causa del ritorno dei nazionalismi e delle (cosiddette) sovranità sarebbe una catastrofe per tutti noi.
Ma anche l’altra forza in campo, l’euroconservatorismo, è ormai altrettanto distruttrice. È in fondo la principale responsabile della comparsa dei movimenti sovranisti, dello spostamento in senso antieuropeo di settori rilevanti dell’opinione pubblica continentale. Apparentemente, è il «partito» degli europeisti a diciotto carati, quelli che da un lato invocano dalla sera alla mattina «più» Europa, anche più integrazione politica e, dall’altro, difendono e sorreggono le pratiche quotidiane, il tran tran giornaliero, della costruzione europea così come essa è. Tanto quelle invocazioni che quelle pratiche servono ormai solo ad alimentare, per reazione, la forza contraria, l’antieuropeismo.
Chi vuole tentare di liberarsi da questa tenaglia deve riconoscere che occorre cambiare spartito. Almeno se si vuole salvare ciò che di buono ancora in Europa c’è, a cominciare da quel bene prezioso che è il mercato unico. Occorre riconoscere che l’Europa che abbiamo costruito aveva una data di scadenza. Era figlia della Guerra fredda, della politica dei blocchi. Tanto è vero che venne sponsorizzata dagli Stati Uniti. Alla fine di quella guerra si tentò il colpo d’ala, si impresse un’accelerazione al processo di integrazione (trattato di Maastricht, 1992). A partire dal 2005 (con il voto referendario francese contro il trattato costituzionale) cominciarono i guai.
Quell’Europa, retta da quei principi, non funziona più. L’unica speranza è rimettere mano ai trattati, apportare cambiamenti radicali, ridefinire in senso confederale l’organizzazione dell’Unione. Occorre porre fine allo scontro fra democrazia e integrazione europea. È possibile se si riconosce che la democrazia funziona solo su base nazionale. Altro che «deficit democratico» dell’Europa, altro che continuare a scambiare il Parlamento europeo così come è (i pochi che votano alle elezioni europee lo fanno solo per punire o premiare il governo nazionale) per il tassello indispensabile di una — impossibile — democrazia rappresentativa in formazione su scala continentale. Si tratta di riportare competenze nelle mani dei governi nazionali e di limitare alla produzione di pochi, essenziali «beni pubblici europei» (dalla sicurezza dei confini alla manutenzione del mercato unico e, ammesso che sopravviva, dell’euro) i poteri della Ue.
Sfortunatamente, Brexit non aiuta. Quando erano dentro, i britannici criticavano aspramente l’Unione. In parte, certamente, giocava la storica diffidenza dell’Isola per il Continente. Ma in parte giocava anche una visione niente affatto da disprezzare dei compiti che potevano e dovevano essere affidati all’Europa senza intaccare le prerogative delle democrazie nazionali: una visione liberale (si pensi a Tony Blair) che i continentali hanno sempre snobbato bollandola con il marchio dell’euroscetticismo.
C’è chi dice: sarebbe folle rimettere mano ai trattati. Anche, eventualmente, dopo elezioni (le prossime in Olanda, Francia, Germania) che non si risolvessero in una vittoria campale degli antieuropeisti. Riaprendo la partita dei trattati, pensano costoro, si rischierebbe di sfasciare tutto. Il rischio c’è effettivamente. Ma se non si metterà mano ai trattati è certo che si sfascerà tutto. Tanto più ora che dobbiamo vedercela con Trump. Si tratta di scegliere fra il rischio e la certezza. Giunti a questo punto, cambiare i trattati è possibile solo se si coinvolgono le opinioni pubbliche. Soltanto così si potranno forse innescare movimenti di opinione tesi a salvare il salvabile, propiziando un rinnovamento autentico.