22 Novembre 2024

Fonte: Huffington Post

di Lucia Annunziata

“Stavolta tocca all’Italia fare da cavia. Al voto arriviamo fragili, perché prevale il pessimismo di Istituzioni che già preparano il paracadute del giorno dopo, dimentiche del fatto che le audaci geometrie governative degli ultimi anni hanno bruciato i ponti con gli elettori. Ma il futuro ha bisogno di più politica, non di meno”

Stavolta toccherà all’Italia fare da battistrada e da cavia. Le elezioni politiche del 4 marzo 2018 saranno il primo turno di una lunga serie elettorale dell’anno – da quelle russe, a quelle brasiliane, a quelle di mid-term in America, fino a possibili nuove consultazioni tedesche – in un giro che dovrebbe dare il polso della situazione nel mondo, nel primo periodo di uscita dalla crisi globale. A noi italiani tocca il ruolo di cavia per capire se nel sud Europa si sono fermate l’onda del populismo e l’instabilità politica.

Come ci arriviamo?
Alla vigilia delle elezioni del 2012 si mise all’opera una straordinaria campagna di pressione sul premier “tecnico” Mario Monti perché facesse un suo partito e si presentasse alle elezioni. Le voci delle sirene – giornalisti, politici e istituzioni – furono così alte da piegare ogni altra considerazione e da indurre il professor Monti a fare il primo, ma definitivo, passo falso della sua vita: mettere insieme un partitino in cui la dignità dei nomi non equilibrava la fragilità politica dell’operazione. Sappiamo come è finita: la manovra si rivelò irrealistica perché inutile rispetto ai dati usciti dalle urne e alle dinamiche che ne seguirono, bruciando così un bel po’ di capitale politico.
Cinque anni dopo desta un certo sgomento vedere come la stessa operazione si stia ripetendo per Paolo Gentiloni. Che certo è politicamente più avveduto di Monti e, certo, ha alle spalle un vero partito, non deve metterne in piedi uno. Ma la somiglianza fra i due casi rimane innegabile: lasciando in carica un Governo senza Parlamento si prepara un Gentiloni per il dopo Gentiloni, come un Monti dopo Monti, per affrontare un risultato elettorale che si anticipa ingovernabile.
Al di là di quelli che saranno i risultati (e facciamo gli auguri a tutti), questo procedere lascia un profondo pessimismo: evidentemente, cinque anni dopo, le istituzioni italiane continuano a pensare all’Italia nello stesso modo – come a un paese instabile, con populismo e fascismo alle porte; un paese che da solo non sa scegliere il suo destino. Lasciato a se stesso questo paese andrebbe in rovina e prenderebbe tutte le strade sbagliate. Il compito che si sono ritagliate le istituzioni, di conseguenza, è quello patriarcale, paternalista, e dunque autoritario, di preparare una soluzione politica a una politica che non sa risolvere i problemi.
Nel suo discorso di fine anno il presidente Sergio Mattarella ha dato segnali di essere molto consapevole di questa problematica – che sorge dalla attuale transizione/non transizione nata comunque dal Quirinale stesso e di cui il capo dello Stato è ancora convinto – ed ha fatto una rassicurazione per molti versi inusuale. Ha affermato esplicitamente che “le elezioni aprono una pagina bianca che sarà scritta dagli elettori”. La necessità di ripetere un’ovvietà fa capire quanto di ovvietà non si tratti più.
Infatti – e non è incredibile? – ci avviamo a una campagna elettorale molto complicata (e che si sospetta sarà anche poco “pulita”), eppure nessuna riflessione si ascolta dalla classe dirigente su quello che è stato il quinquennio, cioè la legislatura che seguì quella prima errata valutazione sul dopo Monti, e che è continuata con una rocambolesca serie di soluzioni per il Premierato, ognuna geometricamente sempre più lontana dai risultati delle urne.
I critici di questo procedimento – noi fra gli altri – sono stati continuamente rimbrottati dall’attivissimo entourage di costituzionalisti e politologi che ha sempre difeso la legittimità di tutte le scelte fatte. Le critiche tuttavia non hanno mai riguardato la legittimità – a parte poche ed isolate voci, nessuno parla oggi in Italia di “golpe” o “sospensione” della democrazia – ma anche la scelta più legittima può essere sbagliata.
E l’errore è il tessuto stesso con cui è stato fatto l’ultimo quinquennio. Le audaci geometrie governative per assicurare la stabilità hanno nei fatti bruciato ancora di più i ponti fra istituzioni ed elettori. Mentre contemporaneamente – da Bersani a Letta, a Renzi, e ora chissà Gentiloni – hanno bruciato anche un capitale politico di cui avremmo oggi ancora molto bisogno. Il risultato è che un’operazione fatta con mano pesante dalle Istituzioni per dare stabilità al paese, ci ha consegnato l’esatto contrario: un paese in cui i partiti sono liquefatti e il ritorno al proporzionale condanna ogni partito a perdere.
Sarebbe interessante oggi sentire cosa pensano di questo passato prossimo proprio le persone che vi sono rimaste intrappolate. Ma tant’è: la campagna elettorale, che dovrebbe essere il luogo della “comunione” con i cittadini è diventata da tempo un lugubremente finto cerimoniale di sorrisi, eventi e rappresentazioni pubblicitarie.

Sarà dunque questa una campagna elettorale sull’Apocalisse?
Val la pena di chiederselo, visto il pessimismo in circolazione. Forse l’Apocalisse sarà evocata spesso, sotto i suoi vari possibili nomi di oggi, come del resto già successo in altre elezioni: “populismo” , “fake news”, “fascismo”, “manipolazioni”, “interferenze”.
Eppure la società in cui viviamo si è spappolata meno di quel che sarebbe stato possibile in un ciclo di crisi iniziato più di un decennio fa, nel 2007, che ha trasformato il mondo in cui viviamo. Le reazioni di questi anni, pure drammatiche – il ciclo di guerre, il terrorismo, la violenza razzista – sono ben al di sotto di quel che sarebbe potuto accadere, considerando il travaso di ricchezza e rilevanza fra paesi e continenti dovuto allo sviluppo delle tecnologie. In Europa il ciclo populista e indipendentista si è in qualche modo arenato – e, come in Italia, l’originaria spinta antisistema di cinque anni fa è diventata spinta sul sistema più che rivolta. La fine della parte peggiore della crisi economica sta esercitando la sua influenza, apportando una sorta di moderazione alla rabbia degli anni più duri.
Ma proprio questo momento di minimo di ripresa occorre avere più attenzione. Su questo punto l’intervento di fine anno di Mattarella è stato una positiva sorpresa: il futuro, e il nuovo mondo in cui già questo futuro ci ha portato, è l’unica vera sfida a cui non possiamo sottrarci, e su cui vale la pena di dirigere ogni energia.
Al di là del sollievo economico momentaneo (e per ora limitato) di un inizio di ripresa, l’uscita da questa crisi non sarà facile perché la sua soluzione non ci riporterà semplicemente dove eravamo, ma in un luogo completamente diverso: milioni di posti di lavoro sono stati e saranno ancora bruciati. Altri milioni se ne creeranno, ma non saranno come quelli di prima. È una realtà che ha documentato con precisione in questi anni con I suoi studi la McKinsey.
Per aiutare questa transizione epocale, che durerà decenni, i governi, le istituzioni pubbliche, dunque la politica tutta, avranno un ruolo determinante nel compensare i grandi divari cresciuti nel nuovo mondo. Nel futuro non c’è il regno dell’Anarchia, dell’individualismo spinto, della concorrenza senza limiti, dei divari abissali. Perché non sia così, avremo bisogno di un nuovo Stato, che accompagni i processi del cambiamento, ne compensi gli squilibri e ne usi in positivo “gli spiriti animali”. Dovrà essere uno Stato che abbia più cultura, più occhio lungo sui programmi, e una presenza molto protettiva delle società che guida.
Il futuro ha insomma bisogno di più politica, non di meno politica. Ma per tornare ad avere questo ruolo deve ritracciare il suo senso – che è poi il rapporto di vicinanza e di rappresentanza dei cittadini.

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