24 Novembre 2024

Fonte: Il Sole 24 Ore

di Alberto Magnani

Il premier britannico ha incassato una nuova battuta d’arresto in Parlamento: sì al suo accordo, ma no all’iter acccelerato per mandarlo in porto entro il 31 ottobre. Come si è arrivati fin qui, che cosa succede ora


Tutto in una sera, anzi, in poche manciate di minuti. Il 22 ottobre si è consumato un nuovo capitolo della Brexit e dei flop inanellati dal premier Boris Johnson per finalizzarla entro il 31 ottobre. La Camera dei Comuni, il parlamento britannico, ha prima approvato con 329 voti favorevoli e 299 contrari «i principi» dell’accordo di Brexit sottoscritto da governo e Commissione europea; poi bocciato la tabella di marcia accelerata che il premier Boris Johnson aveva avanzato per chiudere la partita nell’arco di tre giorni e permettere alla Ue di far approvare in (relativa) calma l’intesa entro il 31 ottobre.
Non è un paradosso ma una conseguenza di un processo di approvazione del testo scandito, appunto, da due voti interdipendenti fra loro. Il primo per stabilire se il Parlamento fosse d’accordo con l’accordo raggiunto dal governo britannico (risposta: sì). Il secondo per stabilire se la Camera fosse favorevole a un iter accelerato che avrebbe compattato l’intero processo di discussione e voto del testo fra il 23 e il 24 ottobre. E la risposta, evidentemente, è stata no.

Come siamo arrivati fin qui…
Qualche premessa. Il 17 ottobre il governo britannico e i leader europei hanno raggiunto un accordo sulla Brexit, accolto con entusiamo da Johnson e freddezza da buona parte dell’opinione pubblica britannica, perché ritenuto troppo sbilanciato a favore della Ue. In particolare il testo prevede un compromesso sui confini irlandesi che lascerebbe l’Irlanda del Nord nell’unione doganale dell’Ue, ipotesi guardata ovviamente con orrore dai pochi ma rilevanti deputati del Democratic unionist party: una forza di destra protestante nordirlandese che appoggia il governo Johnson e non ha nessuna intenzione di accettare un accordo che “spacchetti” Belfast dal resto della Gran Bretagna. Il 19 ottobre Johnson si è presentato alla Camera dei Comuni, per l’occasione aperta di sabato, con l’obiettivo di far approvare con un voto secco l’accordo sottoscritto a Bruxelles.
Purtroppo per lui, non è andata così. I deputati hanno approvato con uno scarto di 16 voti (322 contro 306) un emendamento che ha obbligato Johnson a chiedere un rinvio della Brexit di tre mesi rispetto alla data originaria del 31 ottobre, in osservanza del Benn act (una legge che imponeva al premier di domandare una proroga se non si fosse raggiunta una intesa entro il 19 ottobre, come appunto è successo). Il resto è stato, se possibile, anche più concitato. Il 21 ottobre Johnson ha annunciato che si sarebbe ripresentato alla Camera per far votare il testo bloccato due giorni prima. Lo ha fatto, ma lo speaker John Bercow ha respinto la proposta di un nuovo voto facendo notare che si trattava dello stesso testo. Il 22 ottobre Johnson ha tentato di far approvare quello che viene descritto sopra: sia il suo testo di accordo sia un iter accelerato per arrivare al sì definitivo entro il 24 ottobre. È andata come si è visto.

La palla torna all’Europa (più o meno)
Johnson ha reagito, a caldo, dichiarando che il Regno Unito sarebbe uscito «in un modo o nell’altro» con quell’accordo. Per il momento, nel concreto, il processo torna in stand by. Il premier ha sospeso il processo di Brexit e si è messo in contatto con i leader Ue, che a sua volta avevano fatto sapere di «attendere le prossime mosse» da Londra. Ora i leader Ue dovrebbero concedere il rinvio della Brexit al gennaio 202o, una dilazione di tre mesi rispetto all’ipotesi di uscita fissata al 31 ottobre 2019. Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk aveva già scritto via Twitter prima del voto a Londra che lo scenario di una Brexit no-deal «non sarebbe mai stata la decisione» dei capi di stato Ue.
È improbabile che la linea sia cambiata nel frattempo, a meno che non emergano i veti di paesi già riottosi alle troppe concessioni a Londra (come la Francia). Intanto, in patria, Johnson sarà chiamato a dare un seguito alla minaccia-proposta agitata prima del verdetto della Camera dei Comuni: la convocazione del voto anticipato, a questo punto possibile nell’ottica di un’estensione di tre mesi del divorzio dalla Ue. L’intenzione di Johnson è incassare una maggioranza più solida e archiviare così il nodo Brexit. O almeno, questa è la sua ambizione.Le cronache dimostrano che non è sempre coincisa con i risultati.

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